NEWSLETTER n. 3, dicembre 2019
Il punto è il ruolo dell’uomo d'affari negli "aggiustamenti interstiziali" del sistema industriale. Gli è indifferente, in via generale, che la sua attività influenzi il sistema in modo utile o disastroso.
I suoi guadagni sono connessi con la grandezza delle perturbazioni, non con il benessere della comunità. Il risultato di questa gestione è quello di dissociare, dagli interessi della comunità, gli interessi di coloro che esercitano il potere discrezionale.

Thorstein Veblen, 1904
PRIMO PIANO

Scenari di guerra

Mao Tse Tung diceva: la confusione sotto il cielo è massima. Quindi la situazione è buona.

Il pensiero di Mao è molto acuto. Quando la confusione è alta vuol dire che tutto è in movimento e che, quindi, è anche possibile alimentare la speranza che magari, attraverso la tensione e la guerra, nasca qualcosa di nuovo, qualcosa di buono. Dal  letame nascono i fiori, cantava De Andrè.  Anche questo è vero, anche se chi sa di giardinaggio sa che un eccesso di letame brucia i fiori. Fuor di metafora, come disse lo scrittore calabrese Corrado Alvaro (1895-1956): “La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio  che vivere onestamente sia inutile”. Noi siamo prossimi a questo stadio. Dunque, non dobbiamo temere il caos ma la disperazione dell’immobilismo. 

Dobbiamo tuttavia cercare di capire quel poco che riusciamo a capire delle forze che generano il caos, per contribuire ad indirizzarle in direzioni positive. La prima cosa che dobbiamo capire è che stiamo vivendo un’epoca caratterizzata dalla fine del secolo americano. Gli Stati Uniti stanno perdendo la loro leadership in quasi tutti i settori, escluso quello militare. Questo è, di per sé uno scenario di guerra. La transizione in atto è caratterizzata dal passaggio da un mondo guidato da una sola grande potenza ad un mondo pluralistico. Il guaio è che gli Stati Uniti non vogliono agevolare per nulla questo doloroso  ma potenzialmente positivo parto e fanno di tutto per impedirlo. E nel fare ciò continuano a perdere quel poco di leadership che a loro resta, e ciò aumenta ulteriormente il caos. Non è questione che hanno un presidente come Trump; è una questione molto più complessa, articolata, profonda e pericolosa e coinvolge milioni di Trump. Come scrisse uno studioso americano molto serio e repubblicano anni fa: gli Stati Uniti stanno vivendo la loro fuoriuscita dalla democrazia e il loro ingresso in una feroce plutocrazia.  Il processo del quale vi erano allora precisi segnali è ora completato. Per rendersene conto non è necessario attingere alle voci  di oppositori del sistema ma basta ed è meglio ricorrere a personaggi che sono componente organica del nucleo centrale dell’establishment di questo grande Paese. 

Così facendo incontreremo Robert B. Reich (Ministro del Lavoro con il presidente Clinton, e definito dalla rivista “Time” uno dei dieci più importanti ministri americani del ventesimo secolo) che scrive: 

“Utilizzando la loro ricchezza per intervenire sulla politica attraverso spregiudicate donazioni elettorali e una feroce attività di lobbying, le grandi multinazionali e la borsa di Wall Street si sono assicurate il potere per far sì che le regole economiche continuino a essere in loro favore. E’ questo il motivo della crescente disuguaglianza dei redditi che sta indebolendo la società americana”. 

Poi troveremo Philip Kotler (di formazione economica presso l’Università di Chicago, allievo di Milton Friedman, di Paul Samuelson e Robert Solow, uno dei massimi guru del Marketing), che identifica i 14 difetti del capitalismo attuale americano che richiedono una profonda riforma:

Il capitalismo americano attuale scrive, tra l’altro, Kotler:

  • propone poco o nulla per risolvere il problema della povertà; 
  • tende a far aumentare la disparità del reddito e l’ingiusta ripartizione delle ricchezze;
  • non impone alle aziende di coprire appieno i costi generati dalle loro attività; 
  • dà la priorità all’individualismo e all’interesse personale a spese della comunità e dei beni comuni.

Incontreremo poi il premio Nobel per l’economia, 2001, Joseph E. Stiglitz che ci spiegherebbe che: “la crisi non è stata il frutto di un volere divino, come un diluvio o un terremoto. È stata il risultato delle nostre politiche e della nostra politica” 

Continuando potremo soffermarci su quello che dice William J. vanden Heuvel, (diplomatico, banchiere d’affari, stretto collaboratore di Robert Kennedy quando questi era ministro della Giustizia, Deputy U.S. Permanent Representative to the United Nations) che, grazie anche ad una lunga vita ha osservato e partecipato all’evoluzione americana, sempre da posizione privilegiata, sin dal tempo di Roosevelt, e che sull’America di oggi  ha parole tristissime: 

Gli americani si trovano oggi a fronteggiare lo scontro di valori più fondamentale che abbia visto nella mia vita. Mentre rifletto sulle sfide, credo che le maggiori minacce alla nostra democrazia siano la guerra continua, il razzismo, la corruzione, l'abuso del denaro e l'assalto risoluto all'integrità delle nostre istituzioni democratiche. Le elezioni del 2016 hanno messo il nostro Paese nelle mani di una banda di cacciatori di fortuna che pensano che la storia sia iniziata con la loro elezione. Non hanno rispetto per le lotte degli ultimi ottanta anni che hanno reso gli Stati Uniti il più grande paese del mondo, degno del rispetto che ha guadagnato. Hanno imparato l'arte dell'insulto e della minaccia. Sono dei bulli, con il carattere e la compattezza dei bulli. Hanno umiliato persone buone e decenti. Hanno sminuito i nostri alleati e ci hanno dato un governo autoritario senza rispetto per la democrazia. Hanno alimentato i fuochi del razzismo. Hanno preteso di esercitare il patriottismo mentre insultavano un autentico eroe, il senatore John Mc Cain, il cui servizio al suo paese è leggendario - mentre il loro è inesistente. Nel 1933 sorse l'ondata di giustizia tanto attesa e la speranza e la storia trovarono espressione in Franklin Delano Roosevelt. Facciamo sì che la speranza e la storia ritornino. Cerchiamo il rinnovamento in questo grande paese. Lasciamo che gli echi delle Quattro libertà risuonino ancora. Il vento e la pioggia - il sole e le sue ombre - porteranno il messaggio. Non avremo paura. Speranza e storia saranno riconfermate. E i giorni felici ritorneranno”. 

Dopo aver letto i pensieri di questi importanti personaggi appartenenti al cuore del capitalismo americano attuale, ci rendiamo conto dell’entità delle sfide che dobbiamo fronteggiare, e delle domande che dobbiamo porci.

Cosa vuol dire tutto ciò per la nostra attività di esperti e studiosi d’impresa? La mia generazione è nata ed è cresciuta nel grembo americano. Sono stati i nostri maestri, tutori, esempi, a tutto tondo. Abbiamo imparato se non tutto quasi tutto da loro. Tutto ciò è finito. Nel campo d’impresa non c’è più niente da imparare dagli americani. Possiamo ancora imparare dai giapponesi, dai tedeschi e persino dai cinesi, possiamo riscoprire la nostra grande scuola italiana. Ma soprattutto dobbiamo creare noi stessi i nuovi paradigmi, lanciare nuovi obiettivi e nuove speranze di incivilimento nell’attività imprenditoriale, rimettendo al centro il fattore umano, come fu nei secoli d’oro del nostro sviluppo e del nostro Rinascimento, dal 1200 al 1500.

Noi proveniamo da una grande guerra industriale clamorosamente persa. Le nostre imprese private di dimensioni atte a partecipare alla competizione mondiale o sono state distrutte (come la Olivetti) o sono diventate apolidi e fuggiasche fiscali (come la Fiat) o sono diventate francesi (come la Edison) o tedesche (come la Italcementi) o cinesi (come la Pirelli) o francesi come tanti brand della moda. Le uniche che tengono botta sono le ex partecipazioni statali (Enel – Eni – Ex Finmeccanica - Poste).

Mi piacerebbe illustrarvi uno scenario più sereno e promettente, ma sarebbe un imbroglio. Lo scenario che abbiamo di fronte è di guerra, anche all’interno del nostro Paese, di grandi incertezze e di enormi fatiche. A questo dobbiamo prepararci e preparare i nostri clienti.  Tanti nemici sono esterni ma tanti, forse i maggiori e certamente i più pericolosi, sono all’interno del Paese. E non sono solo i politici ma tutte le istituzioni che esercitano un potere, dalla Banca d’Italia al Consiglio di Stato, ai sindacati. 

Innanzi tutto,  l’imprenditore minore che vuole sopravvivere e magari crescere, non può essere  nel nostro Paese una persona normale. Deve essere superpreparato, non bravo ma bravissimo. E non solo nel suo mestiere, in molte altre cose. Già lo scrisse nel  primo libro di economia aziendale della storia italiana che, a mio giudizio, resta anche il libro migliore, che si intitola “L’Arte della Mercatura” del mercante ragusano, Benedetto Cotrugli, nel 1458.  Analizzando le qualità che deve avere un  buon mercante (così si chiamavano allora gli imprenditori) concluse dicendo che il buon mercante è uomo d’azione ma anche di studio e deve sapere “tutto quello che può sapere uno homo” e deve “ricordarsi delle cose passate, considerare le presenti, prevedere le future”.

In secondo luogo, il piccolo imprenditore  deve conservare la sua identità e autonomia, perché è qui che si radica la sua forza, la sua creatività, la sua passione, ma deve sapere  inserire sempre di più la sua azione in reti di territorio o di filiera in modo da non essere solo ma parte di reti o distretti o federazioni. “Vae soli” dicevano i romani, E un grande proverbio siciliano dice: “uno da solo non va bene neanche in Paradiso” (Unu sulu nun è bunu  mancu’n Paradiso).E credo che su questo aspetto l’esempio giapponese sia molto illuminante.

In terzo luogo, deve impadronirsi rapidamente delle nuove tecnologie e di tutto quello che va sotto il nome di digitalizzazione. Per questo deve puntare sui giovani. L’ennesima dimostrazione di quanto arretrata sia la classe di potere la trovo nella recente dichiarazione di Alessandra  Perrazzelli, vicedirettore generale della Banca d’Italia che ha detto: (Il Sole 24 Ore, 5 ottobre 2019): per cogliere le nuove opportunità che le tecnologie recano con sé ”vi è ora la necessità che si avvii un nuovo ciclo di aggregazioni bancarie”. Sono incurabili. Non hanno ancora capito che le opportunità digitali sono aperte a tutti e non dipendono dalle dimensioni o dal capitale ma dalla cultura, dal cervello, dalla volontà, dalla flessibilità, dalla integrità. Le nuove tecnologie sono opportunità per i migliori, non per i più grandi. E non hanno ancora capito che la tentata distruzione delle banche di territorio, e in primo luogo delle  Popolari, è stato un atto profondamente ostile all’Italia e alla sua struttura produttiva,  un vero e proprio attentato contro la Nazione. Auspicano nuove aggregazioni bancarie, quando l’Italia è già il Paese con la massima concentrazione degli attivi bancari.

In quarto luogo è necessario  gestire con grande attenzione e competenza una cosa che, in genere, gli imprenditori minori non amano: la finanza. Siamo in una fase storica dove ad una liquidità sovrabbondante di  sistema, il credito per le piccole imprese diventa, giorno dopo giorno, sempre più difficile se non impossibile, e con le idee profondamente sbagliate che dominano in Banca d’Italia, e, ancor più, in BCE, sarà sempre peggio. Per questo la gestione della finanza e il saper usare tutti gli strumenti a disposizione è diventato essenziale. 

Mi dispiace di essere così negativo ma è meglio essere preparati al peggio, piuttosto che illudersi. Chi comanda in Italia è simile ai “signori” e ai papi che nel corso del 1500 invitavano gli eserciti francesi, spagnoli ed imperiali (con relativi lanzichenecchi)  a scendere a saccheggiare l’Italia.

Ma in questo scenario qual è il nostro compito principale?  Dobbiamo dedicarci prevalentemente a sostenere lo sviluppo delle medie imprese di qualità, cosiddette imprese del quarto capitalismo che sono diventate protagoniste del nostro sviluppo negli ultimi venti anni. Dobbiamo ricercare e capire insieme a loro le ragioni più profonde della sconfitta storica dell’impresa e dell’imprenditoria italiana. Probabilmente scopriremo che le cause principali non sono tecniche ma culturali, morali e comportamentali. E questa consapevolezza è fondamentale per evitare che le imprese del quarto capitalismo cadano preda dei sicofanti della consulenza, imparino a spostare la loro attenzione dalla successione nell’impresa alla continuità dell’impresa, rifuggano dal familismo con le sue micidiali degenerazioni, si rendano sempre più autonome dalle banche, cancellino dal loro vocabolario l’orrenda espressione: risorse umane, sostituendola con quella di collaboratori perché come dicevo nel 1987 : “Voglio aggiungere che non amo questa espressione: risorse umane. Perché è un’espressione che già evoca quasi un’estraneità dell’uomo al progetto organizzativo e di sviluppo, un suo essere oggetto. L’uomo non è una risorsa, come il petrolio e come il cotone. L’uomo è il protagonista dello sviluppo. L’uomo è lo sviluppo”. 

Come ha scritto Simon Kuznets la tecnologia moderna, l’organizzazione moderna, lo sviluppo scientifico richiedono sempre di più uomini e donne partecipi, consapevoli e un’organizzazione sociale sempre più capace di mediare democraticamente i conflitti (Lo sviluppo economico moderno, conclusione e riflessione, in Lezioni Nobel di Economia 1969 – 1976, Boringhieri, Torino, 1978). 

E non è forse questa la scoperta di quel grande uomo che è Gorbaciov, al quale tutti noi dovremmo essere eternamente grati, quando disse: “Siamo arrivati alla conclusione che se non attiveremo il fattore umano, se cioè non prenderemo in considerazione i diversi interessi della gente, dei collettivi di lavoro, degli organismi pubblici e dei vari gruppi sociali, se non conteremo su di loro e non li coinvolgeremo in iniziative costruttive, ci sarà impossibile realizzare i compiti che ci siamo prefissi e cambiare la situazione del Paese”. 

Dunque non spaventiamoci per il caos sotto il cielo ma anzi prendiamolo come stimolo a fare, perché come disse Bertrand Russell: 

“I pericoli esistono, ma non sono inevitabili;
e la speranza del futuro è per lo meno 
altrettanto ragionevole come il timore”

 

  1.  Philip Kotler, Confronting Capitalism, Real Solutions for a Trembled Economic System, 2015 (ed. Italiana: Ripensare il capitalismo,Hoepli Editore, 2016)  
  2.  Joseph E. Stieglitz: The Great Divide. Unequal Societies and what we can do about them (2015). Ed. Italiana: La grande frattura. Le disuguaglianze e i modi per sconfiggerla, Einaudi, 2016.  
  3.  William J. vanden Heuvel , Hope and History, A memoir of tumultuous Times, Cornell University Press, 2019.
  4. Conversazione all’Associazione  e Centro Culturale San Carlo  di Milano “Umanesimo, Economia, Società”, 27 aprile 1987.
IN & OUT

Un opportuno ripensamento? 

A gennaio 2018 Larry Fink, numero uno di BlackRock (il più grande fondo di investimento del mondo), nella lettera annuale ai vertici delle società partecipate (https://www.blackrock.com/it/investitori-privati/approfondimenti/larry-fink-ceo-letter) comunicò che la ragione d’essere di un azienda non è solo la ricerca del profitto: “Gli utili sono essenziali, se una società deve servire efficacemente tutti i suoi portatori d’interesse nel tempo – non solo gli azionisti, ma anche i dipendenti, i clienti e la comunità”.

Ad agosto un messaggio analogo è venuto da Business Roundtable (influente associazione della Corporate America che raggruppa oltre 180 gruppi con dieci milioni di lavoratori) con una propria dichiarazione, “Statement on the Purpose of a Corporation”, (Business-Roundtable-Statement-on-the-Purpose-of-a-Corporation-with-Signatures.pdf) firmata tra gli altri da Jamie Dimon (Chief executive di JP Morgan), Jeffe Bezos (Ceo di Amazon), Tim Cokk (Ceo di Apple), Brian Moynihan di Bank of America, Mary Barra di General Motros e Dennis Muilenberg di Boing.

In sostanza i firmatari di questa dichiarazione spostano il focus dello scopo d’impresa dalla creazione del valore solo per gli azionisti ad una responsabilità più ampia nei confronti di clienti, dipendenti, fornitori e delle comunità in cui l’azienda opera.

Si tratta di segnali importanti che mettono, finalmente, in discussione il paradigma dei “Chicago boys” che ha imperato (e creato danni enormi) negli ultimi 40 anni in America ed in tutto l’Occidente: la massimizzazione del valore per gli azionisti (lo shareholder value), quale unico obiettivo dell’impresa.

Da sempre noi sappiamo che la ragion d’essere dell’impresa è ben altra e cioè lo sviluppo delle persone e delle comunità, che si ottiene attraverso il profitto. Il profitto quindi come mezzo e non come fine unico. 

Non possiamo certo dire che siamo di fronte ad una svolta epocale, ma il fatto che queste dichiarazioni di persone molto in vista ed influenti alimentino un diffuso dibattito sul tema è certamente positivo.

L’auspicio è che dalle parole si passi ai fatti, magari cominciando a ridurre le diseguaglianze retributive, ormai imbarazzanti ed intollerabili, dei CEO delle grandi Corporation, troppo spesso anche titolari di un eccessivo potere anche fuori dalle loro aziende.

Siamo consapevoli che il tema è principalmente culturale e non un fatto tecnico. 

La corretta concezione d’impresa e quindi la consapevolezza della centralità e indispensabilità della stessa nelle complesse dinamiche di sviluppo delle persone e delle comunità, dovrà essere adottata dalle Università (non solo quelle che si occupano di temi economici), dovrà essere fatta propria dagli imprenditori e dalle loro associazioni di categoria che troppo spesso, a nostro avviso, si dimenticano di questo caposaldo fondamentale, dovrà entrare nella cultura sindacale (per superare nell’unitarietà dell’obiettivo d’impresa il conflitto tra capitale e lavoro). In sostanza dovrà entrare nel lessico quotidiano delle nostre comunità.

Non sarà un percorso facile né breve, dovremo contare molto sull’attività quotidiana individuale di ognuno, nella speranza che le nuove generazioni riescano ad interiorizzare questi concetti di fondo e a tradurli in fatti concreti di civiltà più di quanto si è fatto fino ad ora. 

Noi nel nostro piccolo cerchiamo di dare un contributo con la nostra attività professionale e anche con la Newsletter che speriamo sia motivo di riflessione.

L'emigrazione giovanile non è più una questione (solo) meridionale

Lo scorso mese di ottobre la Fondazione Leone Moressa e la Fondazione Migrantes hanno rispettivamente presentato il “Rapporto 2019 sull’economia dell’immigrazione” ed il “Rapporto Italiani nel Mondo 2019”, i cui risultati non solo certificano e confermano trend già noti e consolidati, ma mettono in luce anche più recenti preoccupanti dinamiche.

In circa un decennio, dal 2009 al 2018, quasi 500 mila connazionali hanno lasciato l’Italia (saldo tra partenze e rientri), e di questi quasi 250 mila (l’equivalente della popolazione di Verona) sono rappresentati da giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni.

Quasi un quinto dei giovani che hanno lasciato l’Italia nel periodo 2009-2018 proviene dalla Lombardia (18,3%), seguono Sicilia (10,4%) e Veneto (9,4%):

I numeri dicono quindi che nel periodo 2009-2018 da Lombardia e Veneto sono complessivamente emigrati circa il 30% dei giovani italiani. 

In questo quadro è inoltre significativo sottolineare che nel 2018, per la prima volta, le partenze dei giovani veneti hanno superato quelle dei giovani siciliani.

I dati certificano quindi che l’emigrazione giovanile non è più una questione (solamente) meridionale, ma è anche, e soprattutto, una questione settentrionale e nazionale.

C’è quindi da interrogarsi con grande attenzione sulle ragioni che portano tanti giovani che vivono nelle regioni più ricche e avanzate del nostro Paese, caratterizzate dai maggiori tassi di occupazione, a non trovare, o a non vedere, prospettive soddisfacenti per rimanere e costruire il proprio futuro. Ma innanzi tutto bisogna conoscere bene il fenomeno. 

I fattori, concause  e conseguenze derivano da fenomeni complessi e di varia natura, su alcuni dei quali sembra possa esistere un certo consenso:

  • Il senso di insicurezza e incertezza dato dal quadro economico generale nazionale. 

La Fondazione Leone Moressa stima che l’emigrazione  giovanile realizzata nel periodo 2009-2018 sia costata al nostro Paese, in termini di mancato contributo all’economia nazionale, 16 miliardi di euro (pari ad oltre 1 punto percentuale di PIL), senza contare l’investimento sostenuto dalle famiglie e dallo Stato per la loro istruzione e formazione, investimenti di cui godono i paesi di destinazione. 

  • La fisiologica apertura delle nuove generazioni al mondo ed alle sue opportunità. 

Oggi la possibilità di intercettare e cogliere opportunità, l’apertura culturale, la facilità di spostamento, sono tutti elementi che, in via del tutto naturale, facilitano lo spostamento internazionale dei giovani.

Qui la nostra scommessa è allora duplice: da un lato dobbiamo creare le condizioni affinché i nostri giovani, dopo l’esperienza estera, abbiano un interesse a tornare in Italia. Dall’altra dobbiamo renderci a nostra volta un Paese attraente per i giovani stranieri e per le loro aspettative formative e professionali. 

  • Il freno del sistema imprenditoriale nella valorizzazione e promozione dei giovani.

Su questo punto condividiamo quanto efficacemente scritto da Federico Fubini sul Corriere della Sera il 5 luglio 2019: “È invece un enigma, e una chiave per capire l’Italia, il fatto che gran parte di coloro che vanno all’estero vengano dalle regioni più ricche. Delle 57 province con un tasso di emigrazione internazionale superiore alla media del Paese, 45 hanno anche un tasso di occupazione più alto della media. Si espatria da culle di qualità della vita, ricchezza e produttività come Mantova, Vicenza, Trieste, Varese, Como, Trento. Fra le prime venti province per percentuale di abbandono del Paese, soltanto tre hanno meno occupati della media. Tutte le altre ne hanno di più, spesso molti di più: accade per esempio a Treviso, Pordenone o Bolzano. Questa gente non va via in primo luogo perché non trova lavoro. Dev’esserci qualcos’altro. […]. Ma la mappa dell’espatrio dice in primo luogo che, appunto, le cause profonde non sono solo economiche… Le ragioni devono essere anche culturali e psicologiche. Di certo i giovani istruiti che tendono a lasciare il Paese hanno più energia, più capacità di usare la tecnologia e idee più fresche dei lavoratori di età avanzata che in Italia rappresentano la maggioranza…. Ma ormai i ragazzi non aspettano, perché hanno un’alternativa: possono decidere che non vogliono più subire la lentezza, l’atrofia e la rigidità delle carriere. E se ne vanno.”

Questo è l’ambito nel quale, come aziendalisti, possiamo e dobbiamo dare il nostro principale fattivo contributo, affinché le imprese diventino luoghi capaci di valorizzare i giovani.

VNZ NEWS

Viaggio studio in GIAPPONE

dal TPS all’Industria 4.0 verso la Società 5.0

Dal 2 al 10 novembre abbiamo partecipato al viaggio studio organizzato da Considi in Giappone. È stata un’occasione unica di osservare ed imparare da chi da anni applica con successo metodi e strumenti di gestione innovativi (quali il TPS, cioè il Toyota Production System) e le relative integrazioni grazie all’impiego di tecnologie digitali (IoT, Big Data, Collaborative Robot, Addictive Manufacturing).

Da sempre il Giappone è stato capace di coniugare Innovazione e Tradizione, Metodo e Filosofia del Miglioramento, Lotta agli Sprechi e Maggior Valore per il Cliente. Ed oggi il Giappone, nel mezzo della rivoluzione industriale 4.0, sta pensando e sviluppando quello che domani sarà la Società 5.0.

Abbiamo visitato aziende grandi, medie e piccole:

Le parole chiave del TPS sono:

HITOZUKURI: Saper far crescere le persone

MONOZUKURI: Saper far bene le cose

KOTOZUKURI: Saper far crescere il valore per il cliente

Le abbiamo viste declinate e applicate in tutti gli stabilimenti visitati assieme a KARAKURI (meccanismi semplici che non utilizzano energia elettrica) e KAIZEN (cambiare per stare meglio).

Possiamo sintetizzare ciò che abbiamo appreso con:

  1. Tutte le imprese visitate sottolineano la missione sociale della loro attività per contribuire a migliorare la società e la vita delle persone. È il concetto alla base della Society 5.0.
  2. La tecnologia 4.0 è usata per ridurre le attività non a valore piuttosto che per automatizzare quelle a valore. Quindi il “factory automation” serve ad accelerare il kaizen.
  3. Anche l’impiego delle tecnologie deve essere sobrio in termini di investimenti e non necessariamente condizionato dal recupero di efficienza. Si fa perché si deve fare, ma al minor costo possibile.
  4. La customizzazione spinta che il mercato richiede, spinge le aziende di grandi dimensioni a ricercare l’efficienza su piccoli lotti usando tecnologie in grado di gestire alta variabilità.
  5. Monozukuri e Hitozukuri sono due facce della stessa medaglia che si alimentano in un circolo virtuoso al centro del quale deve esserci il cliente.
  6. La tecnologia senza il rispetto per le persone è una strada senza successo.
  7. L’approccio base del TPS (come ad esempio le 5 S) sono ormai considerate “commodity” e date per scontate al punto che nessuno le ha citate.
  8. Il futuro è verso il concetto di Society 5.0: una società con al centro l’uomo, che bilancia lo sviluppo economico con la soluzione dei problemi sociali attraverso un sistema che massimizza l’integrazione tra lo spazio cibernetico e quello fisico.



Convegno PMI
Pilastro dell'economia italiana

Lo scorso 25 ottobre Stefano Zane ha partecipato al convegno PMI – Pilastro dell’economia italiana, organizzato dalla Banca Popolare del Lazio a Velletri.  La sua relazione si è focalizzata sulle questioni cardine delle PMI: il rapporto impresa-famiglia, la convivenza generazionale, la professionalità e meritocrazia come fulcro della direzione, i metodi e gli strumenti di gestione, la necessità che la finanza sia al servizio dell’impresa e non viceversa.



100 MINUTI DI

Il 24 gennaio 2020 si terrà il prossimo incontro dei 100 Minuti di, il ciclo di incontri focalizzati sull'impresa, un’opportunità per interagire con i nostri esperti e con un numero ristretto di selezionati imprenditori e manager. Vedremo come i collaboratori di un’azienda possono e devono essere protagonisti dello sviluppo. Interverranno Paride Saleri, presidente della OMB Saleri Spa e Vincenzo Barbaro della Barbaro & Partners Job Consulting.


Partner meeting

Lo scorso 6 dicembre si è tenuto il primo Group Partner’s Meeting di Considi che ha visto riuniti tutti i Partner e gli Associate delle società del gruppo, ovvero 
Considi, Vitale-Zane&Co., MIXA, Sinedi e C-HR. 
L’occasione è stata dedicata all’approfondimento e alla condivisione delle specifiche competenze ed esperienze nella consulenza alle imprese. Diverse realtà, ognuna con le sue proprie caratteristiche ma tutte accomunate dallo stesso approccio e scala di valori: al centro l’impresa ed il suo ruolo fondamentale nello sviluppo economico e civile della società.

È STATO DETTO

I "robber barons": che fare?

Ripensando al monito di Krugman della nostra News #1, che raccomanda di prepararsi all’incertezza, e a comportamenti imprevedibili e irrazionali degli operatori, viene in mente Thornstein Veblen (1857-1929) che per primo all’inizio del Novecento ha inquadrato in modo scientifico la figura dell’uomo d’affari, una figura molto diversa dall’imprenditore-costruttore e dal manager-leader. Egli ne parla in una delle sue opere più importanti, “Theory of Business Enterprise” del 1904 – tradotta in italiano da Franco Angeli nel 1970 col titolo “La teoria dell’impresa” – dove rileva che per questi particolari operatori:

«l’industria è condotta innanzitutto in vista degli affari, e non viceversa; il progresso e l’attività dell’industria sono condizionati dalle prospettive di mercato, cioè dalle presunte possibilità di profitti pecuniari». 

E se: «il maggior benessere economico della comunità nel suo insieme è raggiunto attraverso l’armoniosa e costante interazione dei vari processi che costituiscono il sistema industriale complessivo, (…) non è detto che il costante mantenimento dell’equilibrio industriale costituisca la condizione migliore per il soddisfacimento degli interessi pecuniari degli uomini d’affari in balia dei quali risiede il potere discrezionale in questione. Ciò è vero specialmente per quanto riguarda i più importanti uomini d’affari, i cui interessi sono molto estesi. Le loro operazioni finanziarie sono di vasta portata, e in genere le loro fortune non sono permanentemente legate all’armonioso funzionamento di un dato sotto processo del sistema industriale. Le loro fortune sono invece connesse con le più ampie congiunture del sistema industriale nel suo insieme».

Sicché: «non è sempre loro interesse promuovere il buon funzionamento del sistema industriale generale (…). Essi possono trarre un profitto da una data alterazione del sistema, indipendentemente dal fatto che tale alterazione operi per aumentare la capacità produttiva o per produrre una condizione di privazione, allo stesso modo in cui chi specula sul mercato a termine del grano, può giocare sia al rialzo che al ribasso. All’uomo d’affari che mira ad un guadagno differenziale derivante da aggiustamenti interstiziali o da alterazioni in seno al sistema industriale, non interessa molto che le sue operazioni abbiano un effetto immediato di accelerazione o di rallentamento del sistema nel suo insieme. Il suo fine è il guadagno pecuniario, il mezzo è l’alterazione del sistema industriale, fuorché nella misura in cui il guadagno sia perseguito con l’antico metodo dell’investimento permanente in un impianto industriale o commerciale, caso che per il momento viene lasciato da parte in quanto irrilevante per l’argomento direttamente in questione. Il punto d’interesse immediato è il ruolo che l’uomo d’affari svolge in quelli che noi qui chiamiamo aggiustamenti interstiziali del sistema industriale; e per quello che riguarda le sue transazioni in questo campo, gli è indifferente, in via generale, che la sua attività influenzi il sistema in modo utile o disastroso. I suoi guadagni (o le sue perdite) sono connessi con la grandezza delle perturbazioni che si verificano, più che con la loro influenza sul benessere della comunità. Il risultato di questa gestione degli affari industriali attraverso transazioni pecuniarie è stato quindi quello di dissociare, dagli interessi della comunità, gli interessi di coloro che esercitano il potere discrezionale». 

«Le esigenze di quest’opera di perturbazione interstiziale fanno sì che nella normalità dei casi il fine prossimo dell’uomo di affari sia di sconvolgere o bloccare il processo industriale in uno o più punti. La sua strategia è solitamente diretta contro altri interessi economici, ed in genere raggiunge i suoi fini tramite il concorso di una qualche forma di coercizione pecuniaria. Utilità e opportunità industriali non costituiscono il punto determinante. Determinanti sono convenienza e pressioni finanziarie. Pertanto nel corso normale degli affari riguardanti il problema della concentrazione industriale, il capitano d’industria opera sia a favore che a sfavore di una nuova e più efficiente organizzazione. Egli inibisce e insieme promuove la miglior organizzazione dell’industria. In via generale, si può dire che le concentrazioni industriali e gli accordi operativi presi ai fini di una utilizzazione più economica delle risorse e degli strumenti meccanici vengono posti in opera solo con enormi ritardi».

«La sua partecipazione all’avanzamento dell’industria è una partecipazione a distanza ed è prevalentemente di carattere negativo. Nella sua veste di uomo d’affari, egli non concorre creativamente al perfezionamento dei processi meccanici né ad una nuova e più vasta utilizzazione dei mezzi a disposizione. Questo è compito degli addetti alla progettazione e alla supervisione dei processi meccanici».

Insomma, il credo di questi operatori – riassume Ferdinando Fasce, storico, in un articolo del 2011 “Una nuova Gilded Age? Grande impresa e democrazia negli Stati Uniti contemporanei” – è il seguente:

«Guidano questi uomini e le corporations da loro fondate il “vangelo” spenceriano della “sopravvivenza del più adatto” e la conseguente irriducibile resistenza, da parte loro, a ogni sforzo di altri soggetti, inclusi i poteri pubblici, di limitare quelle che i robber barons – come li chiamano critici e riformatori – percepiscono come proprie prerogative assolute, rispetto alla società, prerogative fondate sulla proprietà privata dei mezzi di produzione. Invero non mancheranno, i robber barons e i loro collaboratori, entro strutture gerarchiche d’impresa ben presto sempre più articolate, di scendere a compromessi, soprattutto con i poteri pubblici. Ma mai rinunceranno all’idea della non interferenza (“al diavolo il pubblico” e “non devo niente al pubblico” sono le loro parole d’ordine) e della superiorità delle ragioni del mercato su qualunque altra istanza, massime quella incarnata dagli esponenti del mondo del lavoro, o da quei rappresentanti, liberamente eletti, della volontà popolare che, anziché diventare lobbisti dei magnati industriali e finanziari, pretendano di ridurne il raggio d'azione. Circoscrivere la democrazia, quando minacciava i loro interessi, era la parola d’ordine delle grandi imprese di fine Ottocento, dei loro proprietari, dei loro manager».

Più chiaro di così.

Quindi: che fare?

Per approfondimenti, la citazione di Veblen è in Marco Vitale, “Sviluppo e spirito d’impresa”, Il Veltro 2001, pagg. 45-48; l’articolo di Ferdinando Fasce, invece, apparso originariamente in Baritono, Raffaella and Vezzosi, Elisabetta, eds., “Oltre il secolo americano? Gli Stati Uniti prima e dopo l’11 settembre”, Roma, Carocci 2011, pp. 171-184, è disponibile on line a questo indirizzo: http://www.fondazionemicheletti.it/altronovecento/articolo.aspx?id_articolo=28&tipo_articolo=d_saggi&id=308

DA NON PERDERE

SILICIO
dall'invenzione del microprocessore alla nuova scienza della consapevolezza.

di Federico Faggin
2018, Mondadori
Pag. 310, 22€

"Scrivere la mia autobiografia mi ha fatto rivivere le esperienze più significative della mia vita e riflettere sulle molte persone che hanno avuto un impatto importante nel mio percorso. Mi sono così reso conto che ho imparato non solo da coloro che mi hanno voluto bene, ma anche dalle persone che mi hanno osteggiato." Federico Faggin è lo Steve Jobs italiano, un idolo, un eroe, per tutti gli scienziati e appassionati di tecnologia. Nato a Vicenza e poi trasferitosi nella Silicon Valley, con le sue invenzioni, dal microprocessore al touchscreen, ha contribuito a plasmare il presente che tutti conosciamo. In questa autobiografia racconta le sue quattro vite, dall'infanzia ai primi lavori, dalla controversia con Intel per l'attribuzione della paternità del microprocessore, fino al suo appassionato impegno nello studio scientifico della consapevolezza. Quattro vite densissime, di successi e battute d'arresto, di scoperte e cambiamenti, di amici e nemici, che Faggin ripercorre passo dopo passo e arricchisce di aneddoti riguardanti la sua vita privata e di approfondimenti sulle tecnologie inventate. "Sono nato a una nuova vita ogni volta che, osservando il mondo da insospettati punti di vista, la mia mente si è allargata a nuove comprensioni. Sono nato a nuove vite quando ho smesso di razionalizzare, ho ascoltato la mia intuizione e mi sono aperto al mistero."

Hanno collaborato a questo numero:
Nicola Boni, Domenico Gamarro, Giorgia Piccinelli, Monica Rossetti,
Margherita Saldi, Erika Veschini, Marco Vitale, Stefano Zane.

Progetto editoriale a cura di Luca Vitale e Associati
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