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NEWSLETTER n. 5, aprile 2020

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Marco Vitale

AL DI LA’ DEL TUNNEL

“L’ipocrisia non è il linguaggio di Gesù
né deve esserlo dei cristiani,
giacché “L’ipocrisia è capace di uccidere una comunità” ”.

(Dall’omelia di Papa Francesco nella Messa mattutina del 6.6.2017 a Casa Santa Marta)

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Mi ha sempre disturbato la frase: si vede la luce alla fine del tunnel, frase molto gettonata quando si verificano prolungate sofferenze collettive. Essa, ad esempio, fu molto usata nel 2009, pochi mesi dopo l’esplosione della crisi finanziaria. Spesso la usò, allora, il Presidente del Consiglio in carica, così confondendo e male indirizzando gli italiani e tanti imprenditori che avevano in lui cieca fiducia. Ritorna oggi appena si colgono i primi segnali di rallentamento dell’aggressione del Coronavirus. Gli esperti temono, giustamente, che messaggi di questo tipo preludano al rallentamento dei comportamenti prudenti e responsabili con i quali la maggioranza degli italiani ha esercitato l’unica difesa efficace contro la diffusione dell’epidemia.

Il mio disagio ha ragioni più profonde. Temo che per molti quella luce in fondo al tunnel voglia dire: tra breve usciremo dal tunnel e potremo finalmente ricominciare come prima, come se niente fosse accaduto. E proprio qui si radica l’errore più profondo e pericoloso. I più dimenticano che quando si esce dal tunnel si esce in un altro versante, in una diversa valle e non nella stessa valle e nello stesso versante dai quali si era partiti. Ignorare questa ovvia verità vuol dire rifiutare ogni e qualsiasi insegnamento contenuto nella crisi, respingere la necessità di una lettura responsabile e approfondita delle ragioni della crisi, negare alle sofferenze il significato di una lezione, di uno stimolo, e insieme di una occasione di cambiamento e di miglioramento dei nostri comportamenti. E’, come detto, già avvenuto in occasione della crisi finanziaria ed economica del 2008/2011, quando nessuno degli storici mali nazionali (che io allora chiamai: le nostre piaghe bibliche) che resero la crisi italiana tanto più prolungata e dolorosa di quella della maggioranza degli altri paesi sviluppati fu affrontato, corretto, curato. E ciò in nessun campo e meno che mai in campo finanziario dove uscimmo (o credemmo di essere usciti) dal tunnel con un sistema finanziario e bancario, se possibile, ancora peggiore di prima. 

All’inizio dell’ultimo dopoguerra, il grandissimo Luigi Einaudi, ricominciò la sua collaborazione con il Corriere della Sera, dopo la prolungata sospensione causata dal fascismo, con un articolo che inizia con: Heri dicebamus. E questa è l’unica cosa sbagliata che mi è mai capitato di leggere di Luigi Einaudi forse come tanti titoli era stato scelto dalla redazione. Il fascismo infatti non era stata una parentesi della vita italiana, da dimenticare il più in fretta possibile, ma un lungo periodo storico travagliato e chiuso con una guerra disastrosa, dopo il quale nessuno poteva ricominciare come prima. Fatte le debite proporzioni questo rischio è presente in ogni prolungato periodo di crisi e sofferenze collettive e in tutti coloro che anelano a vedere la luce in fondo al tunnel senza pensare che al di là dello stesso non c’è solo la luce, ma un versante ed una valle nuovi da scoprire e conoscere. 

Questa lunga premessa può aiutare a comprendere lo spirito e il senso di alcune riflessioni e proposte in campo economico che svilupperò di seguito. Si tratta di proposte che derivano dalle mie esperienze e dal mio pensiero ma che fanno proprie anche alcune delle proposte che mi sembrano più convincenti tra quelle emerse dal dibattito connesso all’esplosione del Coronavirus. Terrò ovviamente anche conto dei progetti realizzati o annunciati dal Governo. Ma alcune delle mie riflessioni e proposte sono così diverse da quelle del pensiero economico convenzionale e dominante da richiedere alcuni commenti esplicativi. La mia, forse ingenua, speranza  è che la crisi da Coronavirus, anche per la sua novità e forza dirompente, riesca a fare qualche crepa nella tetragona cultura economica dominante da alcuni decenni nel nostro Paese e che, al di là del mutare delle formule politiche, lo inchiodano ai suoi tradizionali errori officiati dalle burocrazie del Tesoro, della Banca d’Italia, della Confindustria, dei mandarini che dominano i circoli di governo, in alcuni influenti economisti e nella grande stampa. 

  1. Smetterla di ragionare solo per grandi aggregati. Sviluppare soluzioni specifiche per temi specifici basati sulla realtà del Paese

È già ricominciata la solita solfa del PIL con uno studio della Confindustria che stima la riduzione dello stesso del 6%. Probabilmente è una stima giusta anche se temo che sia notevolmente ottimista. Ma se fosse del 7% sarebbe altrettanto giusta. E giusta sarebbe anche se fosse del 5%. In ogni caso si tratta di previsioni prive di utilità concreta. 

Sappiamo che comunque la recessione sarà molto grave e che bisogna ripartire dove è utile e possibile ripartire sulla base di una visione non congiunturale ma strutturale. La politica economica italiana, da almeno venti anni è solo una successione di interventi tampone per fronteggiare crisi sempre lette in chiave congiunturale e per grandi aggregati. Viene così soffocato in culla ogni tentativo di pensiero strutturale, cioè ogni possibile innovazione. Quali settori e segmenti hanno reali possibilità di sviluppo? Quali fattori sono necessari per sostenere tale potenziale di sviluppo (quali scuole, competenze, profili di imprese, categorie di enti finanziari, amministrazioni pubbliche), quali attività emergenti vanno potenziate, quali centri di ricerca vanno finanziati, quali territori possono essere focolai di nuove energie e cosa si può fare per incoraggiarli, perché è economicamente conveniente investire nella sanità, nella cultura, nella ricerca e via dicendo? La nostra spesa per la sanità rappresenta il 6.5% del PIL, quella della Germania il 9,5%, quella della Francia il 9,3%, quella del Regno Unito il 7,5%. Abbiamo bisogno di altri dati per spiegare perché il numero dei nostri morti è tanto più alto di quelli della Germania e di ogni altro paese? Lo spiazzamento strutturale dell’Azienda Italia (entrate e uscite dei bilanci pubblici) ha finito per offuscare la conoscenza della realtà dell’economia italiana, intesa come somma dei frutti del lavoro di 60 milioni di italiani ed ha ridotto il dibattito alla discussione di alcune grandezze contabili e dei rapporti fra loro (PIL, deficit, debito), dando così ragione a P. J. Proudhon che nel 1846, in Filosofia della miseria scriveva: “Il contabile, per dire tutto, è il vero economista cui una banda di falsi letterati ha rubato il nome senza che egli se ne accorgesse e senza che essi abbiano mai immaginato che la materia intorno alla quale facevano tanto chiasso chiamandola economia politica, non era che pretta verbosità sulla tenuta dei libri contabili” (Citazione da Sergio Ricossa, Maledetti economisti,  le idiozie di una scienza inesistente, 1996). 

Forse proprio qui, sul fatto che siamo diventati tutti contabili, o aspiranti tali, con tutto il rispetto per questa nobile professione assai importante ma non sufficiente, che si radica la Caporetto della sanità pubblica che abbiamo recentemente vissuto. È certo possiamo rivolgere al nostro sistema attuale la domanda che Pareto rivolgeva all’amico Matteo Pantaleoni in una lettera del 1896: “Mi persuado ogni giorno di più che non c’è studio più inutile di quello dell’economia politica. Dimmi un poco: se non si fosse mai studiata quella scienza saremmo noi in peggior stato di ciò che siamo ora?”.

Io non condivido lo scoraggiamento totale di Pareto ma, per l’amor di Dio!, smettetela di giocare solo con il PIL. Andiamo a fondo delle debolezze strutturali dell’economia italiana e incominciamo a correggerle davvero. E andiamo a fondo nei punti di forza dell’economia italiana, che ci sono e sono importanti, attuali e potenziali e puntiamo su questi. E’ un’operazione da tempo dovuta ma non siamo mai riusciti a farla. Se non riusciremo a farla neppure con lo stimolo e la paura del Coronavirus saremo veramente spacciati. Soluzioni specifiche per temi e situazioni specifiche. 

  1. Conoscere e segmentare la realtà della struttura imprenditoriale commisurando gli interventi a tale segmentazione.

La struttura imprenditoriale italiana (in primo luogo quella manifatturiera ma anche quella della filiera agricola strettamente legata alla qualità della ristorazione e di quella dei fondamentali servizi turistici e culturali) è la nostra forza e la nostra speranza. L’intellighenzia economica italiana continua a dare dimostrazioni di non conoscere questa realtà e quindi a sfornare provvedimenti che solo casualmente possono essere corretti. Anche in questa vicenda si continua a ragionare con la superatissima distinzione tra grandi imprese da un lato e tutte le altre, le c.d. PMI (piccole e medie imprese) dall’altro. È invece necessario distinguere e segmentare, per pensare interventi diversi e adatti a ciascuna specifica categoria. 

  • Grandi imprese: sono poche, grandi, ricche, potenti, prepotenti, e sono quasi tutte ex partecipazioni statali (Enel – Eni – Leonardo – FS – Fincantieri e poche altre). Non hanno bisogno di niente ma solo che siano richieste di utilizzare la loro forza a sostegno della loro filiera (fornitori, clienti, operatori delle loro reti, colpiti dalla fermata forzosa da Coronavirus).
  • Piccole imprese: mi riferisco a quelle veramente piccole, basate su singoli piccoli imprenditori o famiglie imprenditoriali e artigiani, basate insomma più sul lavoro che sul capitale. Queste sono tante, piccole, fragili, senza riserve interne e sono quelle più a rischio dalla fermata da Coronavirus. Hanno bisogno assoluto di sostegni finanziari di sopravvivenza IMMEDIATI, SEMPLICI, NON BUROCRATICI. Questo è possibile solo con una garanzia dello Stato agli enti finanziatori erogatori se si vuole ricorrere a dei prestiti. Ma in questa categoria sono più utili dei contributi forfettari. La dissennata politica di super concentrazione bancaria con conseguente distruzione o assorbimento di tante preziose piccole banche territoriali rende comunque molto difficile per queste piccole imprese interfacciarsi con una grande banca. La maggior parte dei funzionari di queste infatti non sono neanche più attrezzati mentalmente ad interagire con questi piccoli imprenditori che sono da loro visti prevalentemente come un fastidio. E invece sono loro il vivaio naturale della continuità imprenditoriale del Paese e dunque vanno aiutati efficacemente e velocemente, prima che si arrendano, come già troppi hanno fatto nella crisi del 2008 o prima che vengano sostenuti dalla ndrangheta o altre strutture criminali, secondo i timori già manifestati in varie sedi da magistrati di grande valore impegnati sul fronte della lotta alle organizzazioni criminali, le più floride finanziariamente. Queste piccole imprese, tutte, purché dimostrino semplicemente di essersi obbligatoriamente fermate per il Coronavirus e di essere pronte a ripartire devono ricevere un contributo a fondo perduto da fissare in misura forfettaria. Questo non deve essere erogato da nessuna branca dell’amministrazione pubblica né da enti bancari ma da un canale ad hoc che potrebbe essere, ad esempio, quello delle Camere di Commercio. Per quelle che effettivamente partiranno lo stato darà poi una garanzia alle BCC e alle Banche popolari sopravvissute per un periodo di un anno per consolidare  la ripartenza. 
  • Medie imprese: questa categoria, tradizionalmente e confusamente compresa nella categoria delle PMI rappresenta L’ATTUALE ARCHITRAVE della nostra economia produttiva. In generale è composta da imprese bene organizzate, bene guidate, sufficientemente capitalizzate, con risultati positivi, operanti su base internazionale. Descriverle, come fanno tanti commentatori superficiali, soprattutto televisivi, come una armata Brancaleone allo sbando e a rischio di morire da Coronavirus, è una pericolosa stupidaggine. In verità esse rappresentano la parte più solida, matura, civile, resiliente del Paese produttivo. Tante di queste imprese sono state duramente colpite da una crisi così inattesa ma non ne conosco nessuna che si sia veramente fermata. Quelle che non possono più vendere hanno continuato a pensare, fare piani, riorganizzarsi, imparare a usare gli strumenti telematici in modo da venir fuori dalla crisi ancora meglio organizzate di prima. Esse stanno dando prova di grande resilienza per sopravvivere e vincere la battaglia (secondo certi studiosi la resilienza è proprio la qualità che permette ai virus di sopravvivere da alcuni miliardi di anni). Esse sono quindi in grande maggioranza vive e pronte a ripartire. Ve ne sono anche parecchie che con la crisi hanno portato i turni produttivi da 1 a 3, al massimo della capacità produttiva. Luca Orlando, un giornalista bravissimo e profondo conoscitore di questo mondo, ha dedicato un esauriente articolo (24 Ore 31 marzo) a questo gruppo non irrilevante, anche se certamente molto minoritario, di imprese intitolandolo: “Imprese, c’è anche chi lavora giorno e notte”, nel quale illustra vari esempi molto interessanti, nel campo alimentare, dei gas medicali, dei farmaci, dei ventilatori polmonari. Ma sarebbe possibile aggiungere altri esempi, dalla produzione di tamponi (a Brescia c’è uno dei migliori produttori di tamponi del mondo), alla distribuzione alimentare, dove alcuni piccoli negozi, grazie alla qualità di nuovi servizi sviluppati nelle circostanze, stanno vivendo uno sviluppo impensato, almeno nelle maggiori città. 

Ma il maggior numero di medie aziende, anche ottime, ha dovuto registrare un fermo totale delle vendite, degli ordini e degli incassi, soprattutto nel settore tessile abbigliamento, in certa componentistica meccanica, nel turismo. È da queste aziende che dobbiamo aspettarci una ripartenza al più presto possibile. Perché ciò avvenga, esse devono venire rapidamente risarcite dai danni dello tsunami o terremoto che sia, soprattutto su tre fronti:

  • accelerare la ripartenza il più possibile compatibilmente con le esigenze reali della salute. Molte di esse si sono date una organizzazione interna e delle procedure igieniche che le rendono un luogo più sicuro e salubre della media degli ospedali lombardi; 
  • registrando ricavi e incassi fermi mentre non fermi sono gli affitti, gli stipendi e altri costi, esse stanno subendo delle perdite economiche che devono essere alleggerite con un uso rapido, ampio e senza limiti e riserve della cassa integrazione ordinaria;
  • conseguentemente e per le stesse ragioni esse registrano anche uno squilibrio finanziario inatteso che per alcune di esse può essere molto rischioso. Esse devono anche far fronte ai bisogni della propria filiera, come ha opportunamente richiesto il presidente di Confindustria: “La tenuta del sistema economico e delle filiere dipende anche da noi, dalla nostra etica della responsabilità e dei nostri comportamenti”.  Questo squilibrio finanziario temporaneo deve essere risanato da finanziamenti bancari sorretti da una garanzia statale per eliminare ritardi e discussioni con le banche.

Dunque, gli interventi da fare e dovuti a questo settore portante del Paese sono chiarissimi: 

  • riavvio della produzione più in fretta possibile;
  • cassa integrazione a tutti a prescindere dal settore e dalle dimensioni (compreso naturalmente il commercio al dettaglio che in certi settori è quello che soffre di più);
  • garanzia statale per coprire il 100% dei prestiti aggiuntivi a cui le aziende medie devono ricorrere per coprire lo sbilancio finanziario temporaneo determinato dalla fermata delle vendite per Coronavirus, anche qui senza differenze di settore e di dimensione.

Se poi una volta per tutte lo Stato facesse il miracolo di riuscire a pagare i suoi enormi debiti arretrati, cosa che viene richiesta da decenni e da decenni viene ignorata, sarebbe una festa di risanamento del settore del sistema finanziario italiano di grande portata. Se si riesce a fare tutto ciò con rapidità ed efficienza la ripartenza sorprenderà molti almeno nel campo manifatturiero, per tutte le medie aziende internazionalizzate e per i servizi a rete, vero e proprio tessuto connettivo del Paese, come abbiamo imparato a capire proprio in questi giorni grazie al Coronavirus. Temo che il settore dove la ripresa sarà più lenta sarà proprio il turismo e data l’importanza che esso riveste per l’economia e l’occupazione italiana forse un piano speciale da studiare insieme agli operatori del settore potrebbe essere qui molto utile. 

  1. Tenere conto della debolezza e cattiveria strutturale della burocrazia italiana. Nessuna decisione senza CONTESTUALE COMPLETA PROCEDURA ESECUTIVA. Valorizzare la responsabilità dei cittadini. Utilizzare le disponibilità e le competenze del volontariato e degli organi professionali. Questa è una grande occasione per una riforma parziale ma reale della PA. 

Nessun provvedimento ha senso se non si tiene conto della “debolezza” della burocrazia italiana. Ho messo debolezza tra virgolette perché da un lato si tratta di debolezza vera se la rapportiamo agli obiettivi che dovrebbe raggiungere e che vorremmo raggiungesse. Ma dall’altro lato essa dimostra una forza straordinaria nel suo tenere inchiodato il Paese ad un approccio perdente, arcaico e ostile. Io credo che non sia improprio parlare di vera e propria “cattiveria strutturale” della burocrazia italiana, e cioè di un odio profondo radicato nei suoi “caporali” (copyright Totò) e di una sfiducia totale verso i cittadini italiani. Tutti i tentativi di riformare questa realtà sono regolarmente falliti. E non poteva essere diversamente perché sono sempre stati affrontati con metodi profondamente sbagliati: con riforme generali e omnicomprensive, impraticabili proprio perché troppo generali e con prediche per tentare improbabili conversioni. Il nemico non si riforma né si cerca di convertire ma lo si combatte. Ma quando il nemico è più forte non lo si prende di petto come si è tentato di fare con le riforme generali ma con azioni di guerriglia come fece Fabio il temporeggiatore con Annibale e come fece il generale Giap con i suoi guerriglieri vietcong che, pochi e poco armati, riuscirono a battere i super tecnologici e super armati eserciti americani di McNamara in Vietnam.  Molti anni dopo la fine della vittoriosa guerra di liberazione a un giornalista francese che gli chiedeva come aveva fatto a vincere con così pochi mezzi, il generale Giap rispose: “gli americani volevano combattere nella giungla con la matematica ma la matematica nella giungla non funziona”. Si tratta di un antico principio strategico: quando incontri un nemico più forte di te in un determinato gioco cerca di portarlo ad un gioco diverso. Quella che stiamo vivendo rappresenta l’occasione storica per qualche azione di guerriglia vittoriosa contro le  fortezze della burocrazia per i seguenti motivi: perché gli italiani hanno veramente avuto paura che è sempre una convincente consigliera; perché i lombardi oltre alla paura hanno vissuto la enorme tristezza di vedere i propri cari morti portati via  su carri militari senza neanche poterli  salutare con un ufficio funebre; perché, per caso, si ritrovano un Presidente del Consiglio galantuomo che non ha avuto ancora tempo di infettarsi dei veleni che la burocrazia inietta sempre nei politici  (è una delle sue maggiori armi segrete); perché si sono ritrovati come popolo e di ciò si sono compiaciuti; perché hanno dimostrato di essere in grande maggioranza responsabili e persino disciplinati; perché hanno scoperto che sotto la cenere della mala sanità, creata dalla cattiva politica partitante, si nascondevano, in solitaria sofferenza, tanti bravi e coraggiosi sanitari e hanno loro voluto bene; perché hanno dato tante prove di solidarietà (dalle generose donazioni di denaro e di volontariato agli ospedali, dai giovani medici e infermieri del sud che vengono a rischiare in  Lombardia nel cuore dell’epidemia, alla spesa sospesa a Napoli  e in altre città del sud), perché hanno riscoperto che nord e sud, giovani e vecchi, siamo tutti un paese, ricco di problemi ma anche di competenze e di umanità che ha continuato a bruciare sotto la cenere. E allora proviamo a vincere anche qualche mano nell’eterna partita contro la burocrazia, ma senza prenderla di petto, in pianura come fecero i Romani a Cannes ma aggirandola sui colli come faceva Fabio o attirandola nella giungla come fecero i vietcong di Giap con gli americani di McNamara. 

Qualche suggerimento concreto: 

  • non prendere e non comunicare nessun provvedimento che non sia accompagnato contestualmente da una procedura attuativa.  In caso contrario l’effetto annuncio non seguito contestualmente dall’esecuzione determina un effetto controproducente suscitando nuova sfiducia. È questo un principio ben conosciuto e ben osservato dai migliori dirigenti di marketing in campo aziendale: non si pubblicizza un nuovo modello di automobile o di altro prodotto se esso non è già pronto ad essere consegnato in misura adeguata ai concessionari e alla rete; 
  • basare ogni provvedimento sulla responsabilità e non sulla sfiducia nei cittadini. Una delle armi segrete più potenti della burocrazia è che ogni provvedimento deve essere basato sulla totale sfiducia nei cittadini. Perciò ogni cosa deve essere minutamente regolamentata. È da qui che nascono, per parlare di un peccato veniale, quei grotteschi ed irridenti moduli di “autocertificazione” per chi deve muoversi, mutati più o meno ogni due giorni, scritti in una lingua che richiede la traduzione di un esperto e quelle ridicole circolari sui 100 o 200 metri da casa con bambini o senza bambini, documenti semplicemente deliranti e offensivi della dignità personale di ogni cittadino. La vita normale si basa sulla fiducia. Talora la fiducia è male riposta e crolla qualche ponte Morandi. Ma noi continuiamo a pensare che la maggior parte di progettisti di ponti siano affidabili, che i manutentori siano responsabili e che i controllori non siano comprati. Perciò anche dopo la caduta del Morandi continuiamo, con fiducia, a passare su ponti e viadotti, magari prendendoci qualche rischio, anche se lo facciamo con qualche preoccupazione in più data la frequenza veramente anomala della caduta di ponti nel nostro Paese. Ed è questo che permette alla vita di andare avanti nonostante le disgrazie e gli errori. Ma come è possibile che sia uno oscuro e misterioso funzionario romano a stabilire se una mamma che porta il figlio sotto casa a fare due passi debba fare cento o duecento metri e se il bambino debba essere tenuto sulla destra o sulla sinistra o distaccato. Ribelliamoci a queste offese alla dignità personale di cittadini responsabili. La risposta pratica a tutto ciò sta nel fatto che i provvedimenti legislativi devono contenere precetti chiari, comprensibili e completi e devono chiudersi con una clausola espressa: è interdetta qualunque circolare applicativa. Sarà caso mai il giudice a stabilire se la mamma si è comportata responsabilmente o meno. Così fece San Francesco con il suo testamento che richiese espressamente venisse usato dai suoi fraticelli senza circolari esplicative (sine glossa). Gli italiani hanno dimostrato proprio con il Coronavirus, dopo che il Governo  è riuscito a mettere un po’ di ordine nella confusione iniziale incominciando a dare ordini precisi, senza fughe di notizie, di essere perlopiù, cittadini responsabili. Trattiamoli come tali anche nei provvedimenti Coronavirus che a loro si rivolgono; 
  • aggirare le fortezze della burocrazia utilizzando il più possibile canali diversi. Questa è una grande occasione che illustrerò con alcuni esempi e che altri potranno ulteriormente arricchire con altri esempi.
  1. È fondamentale che i cittadini più soli e indifesi ricevevano aiuti urgenti di sopravvivenza. Finalmente, anche se tardivamente, il Governo ha capito che questi aiuti, che devono essere erogati in misura molto maggiore, vanno assegnasti per la loro distribuzione ai Comuni. Ma nel dar corso alla distribuzione i Comuni non devono affidarsi alla propria burocrazia ma all’ultima catena operativa più vicina ai cittadini bisognosi, cioè alle reti di volontariato che in ogni città, nel nord come nel sud, operano con risultati quasi sempre positivi e talora quasi miracolosi. Prendiamo magari qualche piccolo rischio che si infili qualche imbroglio ma il grosso andrà comunque a rete in tempi e con modalità efficaci. Il procuratore Gratteri, coraggioso e valoroso combattente, contro la malavita organizzata e in particolare contro la ndrangheta, ha espresso alla televisione la preoccupazione che in alcuni comuni queste liste di contributi di sostegno vengano utilizzate per scopi politico-elettorali da qualche sindaco male intenzionato, magari oscuramente manovrato dalla ndrangheta. Bisogna avere lavorato in Calabria, come è successo a chi scrive, per capire come questo avvertimento sia fondato. Prendiamoci magari qualche rischio ed erigiamo nei Comuni più pericolosi delle zone rosse speciali come difese contro questi rischi   ma non blocchiamo l’operazione che nella maggior parte dei casi sarà benefica e sarà gestita da sindaci per bene. Magari collaboriamo (e questo è un suggerimento anche alla magistratura inquirente impegnata) con i sindaci per cercare di attrarre alla vita normale quei cittadini disposti a cessare di elemosinare in nero. Così anche sotto questo profilo questa emergenza potrebbe offrire risvolti interessanti.
  2. Come già detto è indispensabile distribuire contributi forfettari di sopravvivenza alle piccole imprese e alle imprese artigiane che vogliono continuare a lottare oltre il Coronavirus.  Non affidiamo però l’esecuzione di questa operazione ai soliti canali dell’amministrazione pubblica o alle grandi banche. Affidiamoli, ad esempio, alle Camere di commercio chiedendo alle stesse di costituire dei comitati ristretti di consulenza (non più di tre persone) nominati tra esperti aziendali e del lavoro. In via alternativa questo intervento può essere affidato alle BCC.
  3. Le medie imprese obbligate ad una fermata da Coronavirus hanno bisogno, come già detto, di prestiti bancari, per finanziare il vuoto di circolante determinato dalla fermata. E’ una necessità urgente. Per dare una risposta in tempi adeguati è indispensabile una garanzia statale del 100% agli istituti bancari eroganti.

Credo che questi esempi siano sufficienti ad illustrare il principio che affidare i provvedimenti di sostegno e soprattutto quelli urgenti ai consueti canali della PA è un grave errore. Fare ciò rischia di funzionare come un boomerang dando un colpo mortale alla rinnovata speranza e voglia di responsabilità e di impegno che il Coronavirus ha fatto nascere in tanti italiani. Bisogna cogliere l’occasione per cambiare alcuni tavoli di gioco. Purtroppo, l’ignoranza di questi elementari principi strategici ed organizzativi che, in gran parte, risalgono al più grande libro di strategia della storia umana scritto dallo stratega cinese Sun Tzu oltre 2500 anni fa, hanno già portato il governo a perdere, in gran parte, questa straordinaria occasione. Così invece di ricorrere a Camere di commercio, consulenti del lavoro, altri strumenti professionali, reti di volontariato, BCC, il governo ha preferito seguire, in gran parte, i vecchi canali impantanandosi nelle tradizionali paludi operative. La grottesca storia delle mascherine è la più eloquente dimostrazione di quello che sto cercando di dire. Il governo aveva una straordinaria possibilità con un unico articolo di legge di fare piazza pulita di tanti passaggi burocratici che hanno impedito che i medici sul fronte avessero tempestivamente un numero adeguato di mascherine. Dico ciò con dispiacere perché penso che, nell’ultimo periodo, abbia fatto abbastanza bene. Purtroppo l’inosservanza dei principi elementari che ho cercato di illustrare in questo paragrafo è una sconfitta per il governo e con esso per la Protezione Civile e quindi per tutto il Paese. Probabilmente nessuno di loro ha mai letto Sun Tzu, l’Arte della Guerra (nella bella edizione di Guida Editore con un commento particolarmente intelligente di Alessandro Corneli). 

Forse il governo ha perso definitivamente l’occasione di aprire qualche reale varco innovativo nella muraglia della burocrazia centrale. Speriamo che i Comuni non seguano la stessa via e facciano innovazione organizzativa ricorrendo alle preziose risorse del volontariato. Mi sembra di avere capito che qualche comune sta incominciando a farlo. Ma forse anche il Governo è ancora in tempo per correggere qualche cosa, ad esempio mettendo un po’ di ordine nel guazzabuglio che hanno fatto della procedura della Cassa integrazione guadagni (una babele di 20 casuali e 14 strumenti con uno sperpero di tempo e di energie spropositato). È significativo che sia il Presidente dei consulenti del lavoro (Marina Calderone) che il Presidente dell’Ordine Nazionale dei Commercialisti (Massimo Miani), cioè di due Ordini professionali che potrebbero essere di grande ausilio nell’applicazione degli aiuti, abbiano entrambi sottolineato che si sta pagando l’errore di aver affrontato una crisi straordinaria con strumenti e procedure ordinarie. 

  1. Interventi generali senza distinzioni. Evitare il ritorno allo statalismo. Limitati interventi speciali. 

I necessari interventi di risarcimento, analizzati nei paragrafi precedenti, devono essere generali e senza distinzioni se non quelle tra le varie categorie di imprese già illustrati e per gli aiuti di sopravvivenza ai più bisognosi che devono essere immediati, generosi, affidati ai Comuni e al volontariato oltre che alla solidarietà dei singoli cittadini, cosa buona per chi li riceve ma anche per chi li dà. Ma Dio ci salvi da economisti di partito che incomincino a dilettarsi tra settori strategici e non strategici, tra filiere,  territori, imprese esportatrici e non,  imprese prioritarie o meno da inserire nei calendari di riapertura. L’unica cosa importante è fissare, appena ragionevolmente possibile, un calendario della graduale riapertura, magari dopo aver effettuato qualche test come è stato autorevolmente suggerito. E l’unico criterio ragionevole e generale per ammettere le imprese alla riapertura è quello della sicurezza sul lavoro e sull’ambiente. Bisogna sin d’ora fissare per legge (e con divieto di circolari applicative cioè “sine glossa”) in base a quali parametri e controlli questo criterio deve essere assicurato e verificato. Sul Sole 24 Ore del 1° aprile 2020 (e non si tratta di un pesce d’aprile) ho letto, a tutta pagina, un titolo terrorizzante: “Occorre un Piano per arginare la desertificazione industriale”. L’unica cosa di cui non abbiamo bisogno è un Piano (e già intravedo, con terrore, i volti degli aspiranti gestori di una tale minaccia). E la seconda cosa di cui non abbiamo bisogno è proprio di diffondere il terrorismo economico evocato dalle parole: “arginare la desertificazione industriale”. Quanta sfiducia totale nell’imprenditoria e nella struttura imprenditoriale italiana è racchiusa in queste poche parole, pubblicate proprio per giunta sul giornale dell’imprenditoria italiana! 

Dunque, la desertificazione sarebbe certa e, se siamo proprio bravi, possiamo solo arginarla. E invece no! Se non facciamo errori catastrofici non c’è nessun pericolo di desertificazione. Ben poca cosa sarebbe l’impresa italiana se bastassero due mesi di fermata forzosa da pandemia mondiale per ridurla a un deserto. Una volta avviato un ragionevole possibile calendario di apertura, “le imprese italiane potranno rientrare nei mercati addirittura in posizione di vantaggio se saranno messe in condizioni di mitigare gli effetti delle due criticità che stanno affrontando, quella della perdita di fatturato e quella di uscita dalla filiera di fornitura”. Questo corretto giudizio si legge, per fortuna, nello stesso giornale, nello stesso 1° aprile, nella stessa pagina che ospita il titolo terroristico sopra commentato. Nello stesso senso si muove il commento di un bravissimo giornalista specialista nei temi dell’innovazione tecnologica e delle imprese innovative, Luca De Biase (Il Sole 24 Ore, 29 marzo 2020) che scrive: “La resilienza italiana alla fine della crisi. La vitalità delle aziende italiane non cessa di stupire.  In questo periodo di emergenza il governo ha lanciato alcune chiamate rivolte a imprese innovative che sono in grado di offrire soluzioni per le principali questioni quali: la mancanza di tamponi per l’analisi a tappeto della popolazione italiana e di mascherine per il contenimento della diffusione del virus, per telemedicina, per il monitoraggio dei movimenti delle persone. Solo per l’ultimo tema sono arrivate più di 830 proposte. Segno di una forte capacità innovativa: basta cercarla ed emerge. E nel percorso di rinnovamento dell’eco sistema dell’innovazione italiana è stato registrato dal Financial Times che nella sua recente classifica delle imprese innovative in Europa negli ultimi tre anni l’impresa italiana ha coperto un quarto del totale”.  Ma voglio anche citare uno dei migliori imprenditori italiani, Sandro Veronesi, creatore del gruppo multinazionale Calzedonia, 2.4 miliardi di fatturato, testimone vivente che si può fare grande innovazione anche in settori super maturi. Pur con grande consapevolezza delle difficoltà anche internazionali della ripresa e della necessità di interventi di risarcimento simili a quelli da me descritti nei paragrafi precedenti, Veronesi sta con i suoi a lavorare per la ripresa. Così ce lo descrive Maria Silvia Sacchi (Economia del Corriere della Sera del 30.03.2020): “Sta sottocoperta aspettando che passi la bufera nel mentre lavora per rinforzare l’azienda (“dovremo avere – dice – non solo energie finanziare ma anche mentali”) e studiare idee per quando arriverà il momento di rimettere fuori il naso. Afferma Veronesi: “Ci sarà da rimboccarsi le maniche. È sempre stato così in Italia. Tutti pensano che dal Governo arriveranno aiuti di chissà cosa. Invece nella storia del nostro Paese gli imprenditori hanno sempre dovuto fare da soli e sarà così anche questa volta. Appena possiamo siamo pronti a dare il massimo per ripartire.” 

Cento, mille come lui. Altro che desertificazione. Per avviare più rapidamente possibile la fase 2, cioè quella della graduale ripartenza delle attività produttive contenendo i rischi di contagio, le imprese partiranno più motivate di prima. Ma anche il sistema deve fare la sua parte evitando nuovi clamorosi errori e ritardi e copiando, se possibile, dalla Corea del Sud. Così suggerisce anche una pregevolissima e utilissima lettera/appello di 150 studiosi ed esperti scientifici dal titolo: Serve una strategia per ripartire. Il Paese va salvato. Si riferiscono a una strategia sanitaria non imprenditoriale (Il Sole 24 Ore 2 aprile 2020).

Dunque, niente strategie e piani industriali per favore! ma strategia generale e strategia sanitaria corrette. Trovate qualche altra occupazione meno pericolosa per i vostri economisti di partito. Farei solo due eccezioni.

  1. Un fondo straordinario per le imprese del Sud.  Il Sud oltre al Coronavirus, per fortuna sembra in misura più modesta del Nord, deve fronteggiare due altre minacce. La prima è rappresentata dalla sottigliezza e fragilità del suo tessuto imprenditoriale. Il numero delle buone imprese è esiguo e ciò le rende ancora più preziose.  Negli ultimi anni, anche se il fenomeno è poco percepito, si sono sviluppate parecchie imprese giovani, innovative, finanziariamente fragili ma imprenditorialmente interessanti. Questo nuovo tessuto imprenditoriale che è anche l’unica speranza vera del Sud, va tutelato dai rischi di Coronavirus ma anche dall’assenza di un sistema bancario locale in grado di svolgere un compito di sostegno con intelligenza e responsabilità, e dal fatto che sul loro territorio ha le proprie radici l’industria più potente e liquida del Paese, la malavita organizzata. È stato osservato dal procuratore Gratteri che in Calabria la regione forse più povera d’Europa ha le sue radici quella che è probabilmente attualmente l’organizzazione più ricca d’Europa, la ndrangheta. Parecchi specialisti di questo mondo hanno lanciato allarmi formulando il timore che imprese fragili ma di qualità possono venire assorbite da imprese criminali finanziariamente potenti. Per questo io penso che, stimolato anche dal Coronavirus, ma con una impostazione più ampia e duratura, sia utile dare vita ad un fondo speciale per la sopravvivenza e il consolidamento delle imprese minori di qualità nel Mezzogiorno. Il fondo dovrà fornire finanza (non molta!) ma anche e soprattutto tutoraggio, sostegno manageriale, consulenza organizzativa, collegamenti con il resto del mondo. Il fondo potrebbe far capo alla Fondazione con il Sud, come soggetto attuatore, che non solo conosce profondamente il Sud, ma ha una comprovata tradizione di onestà e competenza ed è già stata utilizzata, con soddisfazione, dal Governo per progetti analoghi come quello per combattere le povertà educative. Naturalmente investitori istituzionali ed anche imprese grandi potranno partecipare a fianco della Fondazione con il Sud in un progetto di questo genere. 
  2. Un piano straordinario per il turismo. Il settore che a me desta maggiore preoccupazione è il turismo per la posizione centrale che esso occupa nel nostro Paese, per il grande numero di occupati diretti e indiretti che allo stesso fanno capo, per la vasta gamma di altre attività che sono collegate alla attività turistica, perché in gran parte dipende da grandi correnti di viaggiatori da paesi a loro volta colpiti dal virus, perché la ripresa sarà qui necessariamente più lenta che nella maggior parte di altri settori. La mia scarsa esperienza pratica del campo mi induce a non cercare di andare più a fondo sullo stesso. Ma forse, come già detto, qui un piano speciale a medio termine, in aggiunta agli interventi per tappare gli squilibri immediati, può, se affidato a mani capaci, tramutare il pericolo in opportunità.
  1. Raddrizziamo l’azienda Italia come premessa per una politica europea credibile. Liberiamo l’Italia dal ricatto del debito pubblico. 

L’economia italiana è sana e solida. La sua industria manifatturiera, rappresentata fondamentalmente dalle medie imprese di cui ho parlato resta tra le migliori del mondo. Il suo turismo (compreso il turismo culturale) pre Coronavirus  è vivo e in crescita; la sua industria della ristorazione ha conquistato negli ultimi due decenni un livello qualitativo molto alto e una posizione internazionale di grande interesse e, nell’insieme, la filiera ristorazione – industria alimentare- agricoltura specializzata – è assai importante ma è solo all’inizio del suo grande potenziale; la posizione dell’Italia nel commercio internazionale è più che soddisfacente e, in certi settori, molto brillante. Naturalmente non dimentichiamo le sue debolezze: tecnologiche, territoriali, occupazionali, formative, istituzionali. Ma soprattutto non dobbiamo dimenticare le sue grandi piaghe bibliche (evasione fiscale anche se in misura minore di quello che si vocifera, lavoro nero molto diffuso, corruzione largamente superiore alla media dei paesi evoluti, potentissime e ricchissime organizzazioni criminali, PA sostanzialmente nemiche del Paese, istituzioni in genere mal funzionanti, un numero molto elevato di poveri). 

Ma che nonostante tutti questi mali l’economia italiana sia solida trova conferma non solo nella sua capacità di esportazione ma nel fatto che l’Italia non ha mai avuto difficoltà a collocare sui mercati finanziari il suo elevato debito pubblico. Gli operatori finanziari internazionali sanno bene che, a differenza di altri paesi europei compresa la Germania, l’Italia non ha mai nella sua storia dichiarato default per il suo debito pubblico e che è sempre stata, come è oggi, una fonte di generosi interessi per gli investitori. L’amico Giancarlo Pagliarini ha calcolato che lo Stato italiano dal 1980 al 2018 ha pagato interessi passivi per 3872 miliardi di euro mentre dal 2010 al 2018 il debito pubblico è costato allo Stato in media 74.295 milioni all’anno (grazie all’euro, altrimenti il costo sarebbe stato doppio). Nel solo 2018 lo Stato ha pagato per interessi passivi 64.662 milioni, equivalenti a 177 milioni al giorno. Dunque, non hanno torto quelli che dicono che il debito pubblico italiano è sostenibile, cioè che trova sempre un mercato internazionale che lo finanzia. Ma dire che è sostenibile vuole anche dire che gran parte del valore aggiunto che il popolo italiano produce ogni anno se ne va in interessi passivi invece che essere reinvestito in opere pubbliche utili, in una sanità meno indecente di quella che abbiamo visto all’opera in alcune regioni con il Coronavirus, in formazione, in interventi per l’occupazione giovanile e in tante altre cose che ci aiuterebbero a vivere meglio. Per questo da vari anni vado dicendo che il debito pubblico eccessivo è come un GRANDE RICATTO che pesa sul popolo italiano, una corda per impiccati ben legata intorno al nostro collo pronta a scattare se facciamo una mossa sbagliata facendo scivolare via il seggiolino sul quale siamo appoggiati in precario equilibrio. È difficile stabilire se un debito pubblico sia eccessivo o meno. Hamilton, primo grande ministro del Tesoro americano, diceva che il debito pubblico, se in giusta misura, è una vera e propria benedizione per i popoli.  Ed è vero. Ma cosa è la giusta misura?  Dipende dal contesto in cui si opera. Il Giappone ha per esempio un debito pubblico tanto più alto del nostro in relazione al suo PIL. Ma il Giappone non fa parte di una comunità con le sue regole e i suoi vincoli che vanno rispettate o consensualmente cambiate. Rispetto alle attuali regole della Unione Europea, della quale fortunatamente facciamo parte, il nostro debito pubblico pre Coronavirus, è da molto tempo, eccessivo.  Da tempo la comunità della quale facciamo parte attende dai governi italiani un piano di riequilibrio ragionevole, credibile, ancorché distribuito nel tempo. Ma i nostri governi non hanno mai fatto ciò e noi abbiamo preferito rimanere dei ricattati con la corda appesa al collo. Le ragioni di questa masochistica preferenza sono tante e sarebbe inutile analizzarle in questa sede. Parecchi esperti italiani di valore hanno, nel corso degli anni, proposto piani di rientro. Ma non hanno mai trovato ascolto per debolezze politiche ma anche perché il pensiero dominante dell’establishment economico pubblico italiano ha sempre sostenuto che esiste una unica via per ridurre il debito: aumentare la crescita del PIL. Tutto il resto sarebbero chiacchiere inutili. Questo infatti dicono i loro modelli econometrici (in gran parte superati), ai quali loro danno sempre ascolto. 

Ora il Coronavirus ha fatto piazza pulita di tutto ciò, compreso questo contestabile articolo di fede ed ha, al contempo, mostrato la assurda rigidità delle regole del patto di stabilità europeo forzando così tutti gli europei a investire a debito e scoprendo che, da solo, nessuno ce la può fare. Perciò appena si è intuito il danno che farà il Coronavirus tutti gli italiani, compresi i, per fortuna, sempre più evanescenti sovranisti hanno giustamente incominciato a guardare all’Europa e a invocare solidarietà e aiuti. Tutto giusto, ma per chiedere ciò in modo convincente e credibile dobbiamo prima mettere in ordine l’Azienda Pubblica Italia, cioè i conti pubblici dell’azienda che fa capo al Governo e alle sue articolazioni territoriali. Dobbiamo fare insomma quello che potevamo o dovevamo fare con calma negli ultimi dieci anni, e cioè avviare un piano ordinato di riequilibrio distribuito nel tempo ma credibile, usando tutti gli strumenti a disposizione: controllo reale della spesa pubblica, smobilizzo di attività pubbliche non necessarie; cessazione di sprechi e taglieggiamenti nelle c.d. grandi opere pubbliche, tagli di sussidi non necessari e intelligenti operazioni di mercato per distribuire nel tempo più lungo il debito pubblico residuo. Ora è il tempo di fare le cose che non abbiamo mai voluto fare per neghittosità. Il Coronavirus ci ha risvegliati dall’ebetismo finanziario che ci aveva avvolto. Oggi dobbiamo smetterla di giocare e di imbrogliare noi stessi. Dobbiamo certamente richiedere alla Unione Europea un impegno serio e solidale e il Governo l’ha fatto.  Ma per portare avanti la richiesta con la credibilità e la dignità necessarie, sia come soci fondatori che come esponenti di una grande economia indispensabile all’Europa tutta, dobbiamo prima, nell’interesse comune e quindi anche nel nostro, mettere a posto la sgangherata Azienda Italia con i suoi sgangherati conti pubblici. Ora il primo passo da fare è quello di lanciare una grande EMISSIONE DELLA RICOSTRUZIONE, come fecero i nostri padri e nonni dopo la fine dell’ultima guerra. Il piano Marshall è venuto dopo. Prima è venuto il PRESTITO DELLA RICOSTRUZIONE, sottoscritto dagli italiani che mostrarono così di avere fiducia nel loro Paese cioè in loro stessi. Conservo appeso nel mio ufficio un poster originale di quel prestito ed ho letto tutte le relazioni e documenti di quella bella pagina di storia italiana. Oggi dobbiamo fare un passo simile e liberare i nostri figli e nipoti dal RICATTO del debito pubblico eccessivo. 

Con grande soddisfazione vedo che aumentano le voci autorevoli che chiedono sostanzialmente la stessa cosa. Giulio Tremonti (Corriere della Sera del 30 marzo 2020) sollecita un “Piano di difesa e ricostruzione nazionale” che non sia molto diverso nello spirito da quello del 1948. Ho apprezzato che Tremonti abbia sostenuto la sua proposta con parole molto belle e coraggiose: “E’ in ogni caso e comunque essenziale che tutti insieme e ora più che mai si abbia una proiezione patriottica, comunitaria, e sociale, il sentimento di essere parte di una stessa Patria, perché ancora una volta nella nostra storia, è arrivato il momento della “unum necessarium” “.  Tremonti giustamente non si inoltra in dettagli tecnici che devono essere approfonditi ma si limita a fissare il punto centrale: “Un Piano basato sull’emissione di titoli pubblici a lunghissima scadenza con rendimenti moderati ma sicuri e fissi, garantiti dal sottostante patrimonio della Repubblica, titoli assistiti, come in un tempo che è stato felice, da questa formula: esenti da ogni imposta presente e futura”.

In direzione analoga si esprime Gianni Tognolo (profondo conoscitore della storia italiana) che auspica l’emissione di titoli perpetui non rimborsabili ma negoziabili sul mercato a basso tasso (Il Sole 24 Ore, 25 marzo 2020). Con la massima chiarezza si è espresso anche Giovanni Bazoli (Corriere della Sera, 5 aprile 2020) c he pensa che gli eurobond verranno ma non prima che noi avremo avviato le nostre riforme: “A queste devono provvedere gli italiani… Resta il fatto che abbiamo un anomalo rapporto tra grande debito pubblico ed enorme ricchezza privata: 4374 miliardi di attività finanziarie delle famiglie (contro 926 miliardi di passività), 1840 miliardi di attività finanziarie delle società non finanziarie; contro 2409 miliardi di debito pubblico. Penso a un grande prestito non forzoso finanziato dagli italiani e garantito dai beni dello Stato… non bastano 100 miliardi ne servono 300. Meno del 7% della ricchezza finanziaria delle sole famiglie potrebbe segnare la svolta che cambia la storia d’Italia”. 

E’ quello che penso e auspico da parecchi anni con una grande preferenza per i titoli non redimibili di cui parla Tognolo. Non volevo quantificare la mia proposta ma dato che Bazoli ci ha provato ci provo anche io. Io penso che l’emissione dovrebbe essere non di 300 ma di 500 miliardi. Io penso che se viene presentata da una guida politica credibile e con una coinvolgente comunicazione che non si vergogni di usare le parole usate da Tremonti una tale emissione avrà un grande successo come ebbe quella del dopoguerra. In ogni caso sulla quantificazione suggerisco una formula alternativa: chiedetelo agli esperti del Tesoro e raddoppiate quello che diranno. Avrete così la risposta più vicina ad essere quella giusta.

La grande operazione di rifinanziamento e consolidamento a lunghissimo termine o con titoli irredimibili per il debito pubblico eccedente pre-Coronavirus, dell’Azienda Italia, accompagnato da un piano di contenimento del debito pubblico residuo con riduzione di sperperi nella spesa pubblica e negli investimenti per le c.d grandi opere e con lo smobilizzo di attività pubbliche non strumentali, è il primo indispensabile passo per una storica svolta nella sgangherata finanza pubblica italiana e per riconquistare una posizione molto più dignitosa nel concerto europeo. Il secondo passo è che gli interventi di risarcimento per i danni da Coronavirus siano adeguati ma al contempo siano rigorosamente e seriamente gestiti. Non bisogna essere profeti per predire che il rischio che si infilino qui, molte infondate pretese è piuttosto alto. Dobbiamo certamente  sostenere la ripartenza dell’Italia produttiva, risarcendo i danni subiti dal terremoto Coronavirus ma prendiamo come esempio la gestione dei terremoti del Friuli e di quello più recente dell’Emilia (prima le fabbriche, poi le case e le chiese) e non  quelli del Belice, dell’Irpinia e dell’Aquila. I risarcimenti devono essere rigorosamente limitati alle attività produttive che hanno subito dei danni economici e finanziari effettivi, stabiliti con criteri appropriati per ogni singola categoria di impresa, al netto degli eventuali risarcimenti assicurativi. La liquidazione dei danni deve essere rapida ma rigorosa. Per questo è necessario inventare una procedura ad hoc. Butto sul tavolo un’idea solo per discussione: propongo che il canale da usare sia quello delle Camere di Commercio presso le quali si costituirà una commissione deliberante presieduta dal presidente della Camera di Commercio e composta da rappresentanti dei principali settori produttivi, da un rappresentante degli organi professionali dei commercialisti e dei consulenti del lavoro e da un rappresentante sindacale. 

Ci potranno essere altre più brillanti soluzioni ma è importante che si operi in un canale speciale ad hoc e non attraverso quelli tradizionali della PA e che il mandato dato a chi deciderà sia molto chiaro: onestà, velocità, efficacia e rigore. 

Questi due passi sono fondamentali per la ripresa dell’economia italiana ma sono anche fondamentali per portare avanti un discorso molto serio con i nostri partner dell’Unione Europea, per superare le diffidenze, in parte fondate, che alcuni gruppi dei nostri partner nutrono nei confronti dell’Italia. 

  1. Impegno massimo per una politica europea che lanci un grande programma di sviluppo economico e civile in linea dei principi solidaristici sulla base dei quali è nata la comunità e secondo la migliore tradizione europea, principi profondamente diversi da quelli dell’economia predatoria neoliberista di matrice americana, che hanno purtroppo avuto troppo seguito anche in Europa negli ultimi venti anni.

La partenza del dibattito europeo tra i paesi “cicala” (con l’Italia in testa) e i paesi “frugali” (con in testa Olanda e Germania) non è stata felice. Da parte italiana si è partiti con una richiesta esclusiva e perentoria di un ricorso agli eurobond, come unica via e unico strumento, dando l’impressione di volere attaccare a questo attaccapanni tutti i propri panni sporchi passati presenti e futuri, e di voler cogliere l’occasione del Coronavirus per avviare quella mutualizzazione dei debiti che i paesi “frugali” (debito/PIL del 58,6% per la Germania e del 49,2% per l’Olanda) hanno sempre, comprensibilmente, respinto. È vero che vari esponenti del nostro Governo a partire dal Presidente del Consiglio, hanno precisato che: “non stiamo chiedendo che venga preso a carico dell’Europa il nostro debito, stiamo ragionando sul debito aggiuntivo legato all’attuale situazione” (Pierpaolo Baretta, sottosegretario dell’economia). Ma un antico e saggio detto napoletano afferma: “chiacchiere e tabacchiere di legno il banco non prende in pegno”. Se quella enunciata da Baretta è la volontà del Governo, e io certamente non ne dubito, essa deve concretizzarsi in impegni strumenti ed azioni specifiche. È necessaria qualche forma di cesura tra il vecchio e il nuovo e il vecchio deve essere ristrutturato su basi solide e convincenti come illustrato nel paragrafo precedente. L’approccio italiano, accompagnato da improbabili ultimatum, da parte del Governo, da prese di posizioni minacciose e grossolane dell’opposizione sovranista italiana, da esternazioni più che discutibili di commentatori italiani spesso miserabili, piagnucolose, umilianti ed offensive verso i nostri partner, ha portato ad un irrigidimento di alcune componenti importanti dei paesi “frugali” . Queste due posizioni e alcune dichiarazioni in sé corrette ma poco tempestive della presidente della Commissione europea, hanno avviato il dibattito in modo, come dicevo, non felice. Ciò ha portato molti commentatori e politici italiani alla frettolosa conclusione che: “anche questa volta l’Europa non c’è” e questo slogan continua imperterrito anche se i fatti dimostrano esattamente il contrario. 

La verità è che questa volta, finalmente, l’Europa c’è come dimostrano i provvedimenti già velocemente presi o programmati:

  • una vera svolta è quella della BCE che tra marzo e dicembre dell’anno acquisterà un ammontare addizionale di titoli di stato pari al 4,5% del PIL;
  • i vincoli del patto di stabilità sono stati immediatamente sospesi, permettendo ai singoli paesi di ricorrere al debito pubblico aggiuntivo per sostenere la sanità, per l’occupazione, per gli enti di sopravvivenza ai più deboli e per contenere il rischio di sparizione di tante aziende minori;
  • è stato lanciato dalla Commissione UE il piano “Sure” di 100 miliardi per finanziare le casse integrazioni nazionali e combattere la disoccupazione; 
  • la Commissione UE ha annunciato che nel nuovo bilancio 2021-2027 tutti i fondi strutturali saranno diretti a fronteggiare gli effetti della crisi da Coronavirus. “Il bilancio 2021–2027 – ha detto Ursula von den Leyern, presidente della Commissione – sarà il nostro Piano Marshall affinché la UE abbia un ruolo cruciale nella ripresa economica; sarà la più ampia risposta finanziaria mai data nella storia europea”. 

Questi provvedimenti assai incisivi e decisi in tempi rapidissimi sono già una prova che l’Europa questa volta c’è. Ora il dibattito continuerà, a partire proprio da domani, sui provvedimenti da prendere di più largo respiro. Le proposte sul tavolo sono tante e tutte interessanti e il negoziato non sarà né facile né semplice e sarà scandito da alti e bassi. Ma ora sappiamo che un dibattito serio è iniziato e che, come tutti i dibattiti seri, arriverà a mediazioni e compromessi ragionevoli. Il punto centrale della discussione è tra chi vuole che i paesi che hanno maggiori problemi di finanza pubblica (come l’Italia) ricorrano agli strumenti di prestito immediatamente disponibili come sono quelli del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità o fondo salva stati) e paesi, come l’Italia ed altri, che richiedono strumenti di indebitamente comune per dare una risposta europea ad una crisi che non è di un singolo paese  (come presupposto dal meccanismo MES) ma è comune a tutta la comunità. La posizione italiana, che il presidente Conte, ha molto opportunamente illustrato direttamente ai cittadini tedeschi in una intervista alla televisione tedesca è, politicamente e culturalmente, ineccepibile. Il profilo giuridico – istituzionale del MES è stato illustrato in maniera chiarissimo da Paolo Maddalena, già vice presidente della Corte Costituzionale Italiana: non è uno strumento della Unione Europea, è un trattato intergovernativo proprio della politica predatoria neo liberale che serve per stringere il cappio a singoli paesi in difficoltà e a porli sotto tutela di qualche forma di troika con metodi non dissimili a quelli che hanno creato indicibile sofferenza alla Grecia. Da parte loro i paesi “frugali” e poco indebitati non vogliono che i paesi “cicala” possano continuare a spendere a piacere indebitandosi a piacere, senza filtri, paletti, controlli. Entrambe le posizioni sono ragionevoli. Personalmente apprezzo molto la posizione italiana che rigetta il MES, così come è oggi, in linea di principio, ma sono anche molto grato come cittadino europeo e contribuente italiano verso i rappresentanti dei paesi “frugali”, che vogliono porre dei paletti solidi alla voracità di spesa dei governi italiani. Non dimentichiamo che tutti i debiti vecchi o nuovi, determinati dall’emergenza Coronavirus o da qualunque altra causa, vanno alla fine onorati. 

Probabilmente verrà fuori una soluzione mista e graduale: per le necessità immediate si potrà fare ricorso ai finanziamenti del MES, però con  regole e condizionamenti profondamente mutati (cioè un MES che non sarà più il MES); poi si passerà ad una politica attiva della BEI ricapitalizzata e autorizzata a finanziarsi con titoli emessi sul mercato (una specie di eurobond parziale); la stessa commissione potrà dar vita poi ad emissioni dirette di titoli sul mercato per obiettivi specifici per arrivare, alla fine, ai veri e propri eurobond. Io mi auguro che essi non vengano sprecati per sanare i guasti del Coronavirus ma per sostenere, più avanti, un grande piano di rinascita europea con investimenti nella green economy, nella ricerca, nella formazione e in tutte le altre attività necessarie per entrare nel futuro e a testa alta e per porre l’Europa nel posto che le compete nel contesto mondiale. 

Dunque, l’Europa dei fatti per fortuna c’è. E senza di essa noi, cittadini italiani, aggrediti con tanta violenza dal Coronavirus, che viene a sommarsi alle nostre antiche piaghe bibliche, saremmo semplicemente spacciati ed espropriati, in una forma o nell’altra, dei risparmi che abbiamo messo da parte come formichine negli ultimi 60 anni.

Ma c’è anche l’Europa delle idee e dei sentimenti e anche questa è assai importante. Lo testimoniano tante e significative testimonianze e dichiarazioni che si vanno infittendo. Ne farò una veloce e incompleta rassegna, perché anche chi continua a ripetere che l’Europa non c’è, si ravveda.

“Se il Nord non avesse il Sud perderebbe se stesso ma anche l’Europa”. E’ questo il cuore di un appello lanciato sulle pagine del Die Zeit da un gruppo di assai importanti e credibili politici ed intellettuali tedeschi capitanati da J. Habermas, il maggior filosofo tedesco vivente e da J. Fischer, ex ministro tedesco degli Esteri. 

European solidarity now, in the interest of all Member States” è il titolo di un profondo e bellissimo “Joint German-Italian Appeal to the Governments of all Member States to EU  institutions”, lanciato il 2 aprile 2020 da un nutrito gruppo di importanti intellettuali, accademici, studiosi, politici, amministratori pubblici italiani e tedeschi. 

In tema di eurobonds il vice presidente della BCE, Luis de Guindes, ha detto di essere a favore: “perché si tratta di una pandemia che avrà ripercussioni su tutti”. Nello stesso senso si era espressa una decina di giorni fa Isabelle Schnabel, componente tedesca del board della BCE e persino J. Weidman, rigoroso e rispettabilissimo presidente della Bundesbank avrebbe consigliato al governo tedesco di essere più flessibile sul tema. 

L’inutilità o meglio il danno evidente di una guerra di religioni e di pregiudizi fuori dal tempo poiché contraria all’interesse collettivo europeo” è quanto sottolinea Nout Wellink influentissimo governatore della Banca centrale olandese dal 1997 al 2011 e uno dei padri dell’euro. 

Per rilanciare l’economia europea – afferma il presidente del consiglio europeo Charles Michell – dovremo utilizzare tutte le leve disponibili a livello nazionale ed europeo. Il bilancio dell’unione dovrà essere adattato. È tempo di pensare fuori dagli schemi.”

Il dibattito è particolarmente vivace in Olanda. Ad aprire il fuoco è stato Rob Jetten, capo del gruppo di liberali europei di D66: “l’Olanda è diventata ricca grazie all’Unione Europea. Ora che in Europa posti di lavoro e redditi sono a rischio a causa dell’emergenza virus non possiamo lasciar soffocare i nostri amici”. Sul quotidiano economico olandese Jetten ha rincarato la dose attaccando la posizione “da contabile” del ministro delle finanze Hoeksra (leader dei Falchi) che rischia scrive Jetten di provocare un “grave disastro diplomatico volendo insistere nell’insegnare al Sud la disciplina di come tenere i conti”. L’attuale governatore della Banca centrale olandese Knot ha detto: “quando si vede cosa accade con il virus in paesi come l’Italia e la Spagna credo che la richiesta di solidarietà sia estremamente logica”  E il già citato past governatore Wellink in una intervista radiofonica si è detto convinto che i Paesi Bassi e i loro alleati, Germania in testa, non possono continuare a opporsi agli eurobonds se vogliono stroncare sul nascere la prossima crisi economica: ”Se il Sud cade – ha aggiunto – il ricco Nord smette di esistere”. Gli attacchi diretti a lui e alla sua posizione hanno indotto il super falco ministro delle finanze Hoeksra ad un parziale rettifica: “dobbiamo valutare in modo solidale cosa è ragionevole fare”. 

Il ministro delle finanze tedesco Olaf Schulz dichiara:”siamo pronti alla solidarietà ma ad una solidarietà ben meditata”.  

Lo stesso direttore generale del MES, Klaus Regling, conclude una sua analisi approfondita ed equilibrata della situazione, nel corso della quale offre i servizi finanziari del MES, inquadrandoli peraltro in una prospettiva più ampia insieme ad altri strumenti, con queste parole: “il tempo della solidarietà in Europa è adesso se si vuole la sopravvivenza del mercato unico non basta salvare la propria economia. È interesse di ogni stato membro dell’Unione che anche tutti gli altri riescano a superare questa crisi”. 

Sono proprio questi scontri e differenze di opinioni all’interno di vari paesi e che hanno natura trasversale ed eventi come il Presidente del Consiglio italiano che parla direttamente ai cittadini tedeschi ad una televisione tedesca a darci la certezza che questa volta l’Europa esiste. 

Di grandissimo interesse per la sua capacità di combinare una soluzione europea e solidale con realismo politico e con semplicità tecnica è la proposta divulgata il 4 aprile 2020 a firma di Carlo Cottarelli, Giampaolo Galli, Enrico Letta, così formulata: “Oltre agli importantissimi interventi della BCE una risposta congiunta e solidale da parte di tutti i governi dell’area euro sarebbe molto utile. Una tale risposta per essere politicamente accettabile deve rispettare tre principi: non deve alterare l’architettura dell’Unione Europea, non deve portare alla mutualizzazione del debito pubblico e deve implicare politiche di spesa concordate e condivise. La nostra proposta prevede l’istituzione di un organismo chiamato Special Health Emergency (SHE) Arrangment, e dovrebbe emettere una tantum strumenti finanziari a lunga scadenza (Special Issue European Security). Le risorse raccolte verrebbero poi spese secondo politiche definite in comune e controllate dalla SHE. Questa proposta alleggerirebbe la pressione sulla BCE permettendo di dare un segnale forte di comunanza di intenti tra i paesi dell’Unione Europea ed aiuterebbe i paesi che hanno più difficoltà ad emettere debito”.

Dunque, per fortuna: 

l’Europa esiste, 

l’imprenditoria italiana esiste ed è solida,

i sanitari italiani esistono e sono coraggiosi e generosi,

i cittadini italiani con la loro, in parte sorprendente,  disciplina, con la loro generosità  e con l’affascinante pratica della spesa sospesa esistono e sono stati apprezzati,

la primavera è magnifica,

domenica è Pasqua e io guardo al futuro con relativa fiducia, anche se so bene che le nostre enormi piaghe bibliche sono per ora ancora intatte e minacciose e che, con l’aggravamento delle conseguenze negative del Coronavirus, ci aspettano anni di severi sacrifici e di grandi fatiche. Ma forse il popolo italiano si è risvegliato e ritrovato come comunità, e su questo si basa la mia relativa fiducia. 

Milano, 6 aprile 2020

La forza delle Imprese, ma attenzione alle debolezze

Il corposo scritto del prof. Vitale ci pone molti spunti di riflessione, uno su tutti è il ruolo delle imprese italiane, specie le medie imprese che sono definite l’attuale architrave della nostra economia produttiva.

Non si può non essere d’accordo.

Nei colloqui che in questi giorni teniamo con imprenditori nostri clienti abbiamo testimonianza quotidiana dello spirito imprenditoriale alla base del loro agire e fare impresa, anche e soprattutto nei momenti di crisi quale quello attuale.

Durante la crisi del 2008 non si percepiva questo spirito così forte e radicato come oggi. Ciò può dipendere dal fatto che il terribile evento di questi giorni ci tocca prima come persone che come imprenditori, manager, professionisti o comunque lavoratori ad ogni livello. Abbiamo avuto conferma di ciò qualche giorno fa durante una call telefonica con il sistema bancario che assiste un ns cliente: i funzionari bancari hanno un atteggiamento totalmente diverso da quello che trovavamo post crisi 2008, meno arrogante, più disponibile, sebbene in questi giorni anche per loro non sia facile lavorare. C’è un’empatia, una comunanza di sentimenti e di volontà di lavorare insieme per certi versi nuova o rinnovata.

Ed è quindi da qui che si deve ripartire, dalle persone.

In tantissimi hanno avuto a che fare con il virus, direttamente o indirettamente, lo smart working non per tutti è agevole, la paura è uno stato d’animo difficile da controllare. Per questi ed altri numerosi motivi il rientro e la ripartenza non sarà facile ed un’attenzione particolare dovrà essere posta proprio alle persone, al loro stato d’animo e alle condizioni psico-fisiche.

Saremo pronti? Saranno pronte le nostre imprese ad affrontare questo tema per cosi dire “soft” ma che poi nella realtà non è per niente “soft”, né marginale?

Indubbiamente “l’obbiettivo impresa” potrà essere un collante molto forte che può essere di grande aiuto anche a superare situazioni personali più o meno complesse.

Ciò che Vitale dice a proposito delle debolezze strutturali dello Stato italiano vale anche per quelle imprese che presentavano debolezze già prima della venuta dell’epidemia, specialmente di carattere finanziario (circolante eccessivo, debito troppo elevato rispetto alla redditività e insufficiente patrimonializzazione). Per queste imprese serve una grande disciplina nel discernere le debolezze per-esistenti da quelle causate dalla Crisi Covid-19. E ciò va fatto con grande velocità perché alle conseguenze specifiche della crisi in atto (brusca e violenta interruzione di fatturato e crisi di domanda) si aggiungono gli effetti amplificati delle debolezze preesistenti.

I giovani saranno un elemento cardine su cui fare leva, nelle imprese, ma anche nella società nel suo complesso. Sono loro che posso portare nuove visioni, nuove interpretazioni, nuove sensibilità, che unite all’esperienza dei meno giovani potranno rigenerare imprese e società.

Mai come in questo momento la convivenza generazionale (e non il passaggio generazionale cui troppo semplicisticamente spesso si fa riferimento) potrà essere un valore da cui partire.

Lo scritto del Professor Vitale ci propone prospettive nuove, possibili soluzioni, ma soprattutto ci indica la strada. 

In questi giorni, dove tra l’altro è difficile avere un quadro chiaro e definito delle azioni che stanno per essere intraprese e capire se le stesse si muovono nel solco degli auspici del prof. Vitale, non è facile tenere il punto. 

Ma con la forza della responsabilità, come cittadini in primis, a cui ci richiama Vitale continuiamo il lavoro più forti di prima.

Stefano Zane